LA PREGNANZA DI UN TAGLIO.
All’interno di un lussuoso palazzo aziendale il capoufficio (Willem Dafoe) scruta il mondo dalla finestra. Non sappiamo cosa gli passi per la mente, ma se il suo sguardo potesse parlare si esprimerebbe a suon di sospiri sommessi e aliti di amarezza. Un’aria pesante, nefasta e ineluttabile, macchia il cielo di grigio, ed è come se l’uomo prendesse coscienza che, sì, qualcosa deve succedere. Qualcosa di spiacevole, ma forse necessario. Si accarezza la fede all’anulare. Chissà, forse anche quella fa parte del criptico intrico di insoddisfazioni che lo ha condotto sin lì. Dalle quinte del palcoscenico penetra nella scena una seconda figura, la segretaria (Carice van Houten), con una cartellina da consegnare al boss. Efficienza operativa, cordialità reciproca, sorrisi e convenevoli, come sempre. Ma gli occhi della giovane donna tradiscono la stessa plumbea mestizia dell’altro. Anzi, sembrano reggere un peso ancora maggiore, una consapevolezza ancora più tragica: l’attesa di un inesorabile addio alla realtà immanente, di una rivoluzione inarrestabile che ha già mosso i suoi passi e sta per travolgere le loro esistenze. E dopo un tacito sguardo dai vetri che danno sull’esterno, mentre le prime lacrime le lucidano le cornee, la ragazza afferra un tagliacarte e coglie il padrone alle spalle, tranciandogli la gola con la penosa determinazione di chi sa di non potersi sottrarre a un volere superiore.
L’agonia è breve. Il sangue scorre copioso dalla ferita. Il pianto dell’assassina si congiunge agli occhi spalancati e privi di vita della vittima ormai immota.
È fatta.
La segretaria esce dall’ufficio, e viene raggiunta in corridoio da altre colleghe.
Sono tutte armate.
Sono tutte sporche di sangue.
E fuori dall’edificio si sta raccogliendo un esercito muliebre (nel quale si riconosce il volto di Marina Abramović), le nuove abitatrici di una nuova terra. Non traspare gioia dai loro volti. C’è timore, sconcerto, frastornamento, ma in fondo ogni forma di nascita implica una separazione dolorosa.
L’eccellente cortometraggio di NABIL funzionerebbe alla perfezione anche senza il supporto della struggente melodia di Antony and the Johnsons, che tuttavia si rivela essenziale per offrire all’opera una chiave di lettura precisa.
Se è vero che, in una visione d’insieme, la sanguinosa rivolta delle impiegate contro i ricchi capi maschi conserva un valore di denuncia sociale (e forse politica) sufficientemente forte, a un passo dalla parodia horror, bisogna tenere a mente la transessualità della cantante Anohni. Sotto quest’ottica, la specularità degli sguardi di Dafoe e della van Houten mentre osservano le nubi tempestose all’orizzonte, la condivisione simmetrica dei loro stati d’animo, la sofferenza e l’insoddisfazione inespresse che ne manovrano i gesti, lasciano traslare il rapporto di subordinazione professionale alla dimensione dell’identità sessuale. La natura femminea trova la forza di sovrastare la virilità dominante: un distacco netto e violento, brutale e decisivo, una trasformazione travagliata che non conosce scorciatoie emotive.
Antony and the Johnsons. Nabil. 2012.