SET IT ON FIRE / BLOOD CULTURES (CHARLIE DENIS)

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FATHER & SON.

Siamo in un’area boschiva, al limitare della civiltà, e due figuri dal volto coperto siedono sul portico della loro casupola di legno: uno è un uomo massiccio, l’altro un ragazzino, presumibilmente padre e figlio; entrambi in jeans e canottiera, stravaccati sulle seggiole a contemplare il vuoto; entrambi hanno il volto coperto da un sacco di stoffa bucata a mo’ di maschera; un fucile è minacciosamente esibito alle loro spalle.
Non serve la grana gritty da video amatoriale anni ’80 (in 4:3 e in qualità da VHS), né il titolo della canzone sparato a grandi caratteri nello stile dei filmacci grindhouse a basso costo, e neppure i chiari rimandi all’immaginario horror degli ultimi 50 anni (il linguaggio found-footage, l’outfit dei protagonisti che sembra uscito da La città che aveva paura di Charles B. Pierce o L’assassino ti siede accanto di Steve Miner, se non The strangers di Bryan Bertino) per catapultarci in un clima di disagio e sporcizia che prende lentamente forma di fotogramma in fotogramma.
Il padre controlla la prole con grossolana severità, insegnandogli a comportarsi da uomo nella tipica mentalità “white trash”: usare armi da fuoco sin dall’infanzia, mettere alla prova i propri muscoli e accettare in silenzio la punizione fisica se i risultati non sono all’altezza.
Dai buchi nello strofinaccio che scoprono gli occhi del ragazzino trapela la deprimente consapevolezza della peste sociale che ammorba il suo microcosmo, all’ombra della criminalità, dell’alcolismo e degli abusi. Il suo è un piccolo volto vuoto, spersonalizzato già dalla nascita (le foto di famiglia appese alla parete non mentono), sotto il quale ribolle il desiderio di una drastica purificazione (“set it on fire… set it on fire”).
E in fondo la mancanza di un’identità è uno dei tratti distintivi dei Blood Cultures, il cui anonimo cantante, coperto da un burqa bianco, osserva in disparte lo scorrere degli eventi, come un angelo custode o uno spirito comprensivo, un po’ come il fantasmino Casper che s’intravede dietro la finestra prima che il padre-padrone spenga il televisore.
Ma la rivalsa è dietro l’angolo: la bellissima ninnananna lo-fi che accompagna la grezza ma funzionale estetica del regista Charlie Denis si fa più vivida, e, dopo che la baita è stata cosparsa di benzina, il figlio concia il padre come il ridicolo spaventapasseri che è sempre stato. In un montaggio sempre più frammentario le corse del ragazzo e dello “spirito” col burqa si sovrappongono, finché la frenesia si arresta sull’eloquente visione di un cumulo di terra scavato di fresco, due metri per uno, con la pala poggiata lì accanto. Il figlio è da solo, in piedi a osservare la scena, col viso scoperto e un fucile in mano; mentre una delle maschere posa monumentalmente sulla rudimentale tomba. Lo spirito lo raggiunge e si unisce alla contemplazione.
Il morbo della violenza passa di generazione in generazione con spaventosa scioltezza, ed è sempre duro da debellare.
A volte è necessario bruciare tutto, fare tabula rasa, ricominciare daccapo.

BLOOD CULTURES. CHARLIE DENIS. 2021.

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