NOTHING LEFT TO SAY/IMAGINE DRAGONS (PATRICK FOCH)

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DANZARE OLTRE IL PALCOSCENICO.

“Nient’altro da dire” sul palcoscenico. La danza va in un’altra direzione e a un certo punto la puoi anche trovare sott’acqua, intenta a raccontare un non luogo chiamato cyberspazio. Uno spazio in bianco e nero che sembra destinato a rimanere un non spazio, dove due danzatori provano comunque a danzare un testo malinconico. Lo fanno in un’atmosfera cupa, grigia, oscura che pare non dare alcun appiglio alla speranza, anche se è meraviglioso il modo in cui la luce dell’acqua brilla sui loro corpi durante l’intera performance. È strano pensare che per un po’ di tempo, questo sia stato l’unico teatro che abbiamo trovato, perché è stato questo, l’unico luogo che si è confrontato con quello in presenza. Da atto fisico necessario per lo spettacolo, la danza è diventata paladina di un incontro da realizzare in video e in questo caso tra realtà asciutte e sott’acqua ha deciso di viverle entrambe nel monitor rettangolare di un computer.

Strana dimensione per chi è abituato a frequentare le sale ma dimensione aperta a infinite possibilità che nella realtà non avrebbero potuto trovare luogo. Complice il buio, anche questa danza si appresta a vivere storie e sentimenti. La novità sta nel fatto che ora i due protagonisti di questa storia vengono catapultati in una realtà contorta e liquida dai contorni scarsamente intellegibili.

Come mostra benissimo la coreografia, che cresce di intensità e potenza con il passare dei minuti, il video è un film che racconta la relazione tra un uomo e una donna intorno ad un tavolino centrale. I danzatori Léa Salomon e Gaël Rougegrez stanno all’interno di un video (curato da Patrick Foch) fatto di cruda realtà alternata alla stessa identica situazione ma collocata sott’acqua con i due che danzano mentre nuotano e si avvalgono dell’acqua per accelerare o potenziare la portata dei propri movimenti. Quando l’elettronica del gruppo Imagine Dragons, fatta di musica alternative-rock e ritornelli pop, per qualche attimo si fa meno intensa sino a sfiorare il silenzio del cantato, pare di sentire il pulsare dell’acqua e le bolle d’aria andare a finire su quel palcoscenico naturale. Lo scongelamento della relazione tra i due avviene proprio in questo liquido, in queste volute d’acqua dove i piedi dei due danzatori si danno la spinta come spargendo il liquido dappertutto e tutta l’azione si svolge quasi fosse un rituale. Quando si ritorna a fasi alterne alla realtà, mentre la danzatrice si aggira intorno al tavolo e il danzatore si avvicina o si allontana, ci accorgiamo di essere lì in attesa che tutto torni un’altra volta sott’acqua in modo che sulla scena come in uno specchio ovale si rifletta il loro volto, le mani e gli avambracci, formando strane e meravigliose creature. Entrambi i personaggi sono bellissimi, eleganti ma di presenza austera, come personaggi che soprintendono il cambiamento o la mutazione. Quell’acqua sfiora i corpi e maneggia quelle catene mentali simbolo di alienazione, solitudine e sconforto (quello di cui parla la canzone quando dice “non è rimasto niente da dire adesso…mi sto arrendendo , arrendendo, hey hey, mi sto arrendendo adesso”), guardandoci dritto negli occhi, muovono una danza fatta di movimenti circolari, figure di morbida e raffinata compostezza.

Il controllo della scena è totale, quando finalmente i due danzano la mobilità e lo spostamento per esaltare proprio quegli spazi che cambiano. Forse i due stanno danzando quegli spazi mentali che si attivano poco prima di rinunciare a vivere.

Imagine Dragons, Patrick Foch, 2020.

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