PHARAOH / ROSIE LOWE (MATILDA FINN)

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ALLEGORIA ROSSO SANGUE.

L’estetica simbolista esplode in un roboante trionfo: non ci si può soffermare su una sola immagine del video di Matilda Finn senza costringersi a scavare nel suo significante, a caccia dei legami semantici e tematici che si celano sotto le enigmatiche apparenze dei suoi elementi compositivi. Okay, è un po’ quello che si può dire della stragrande maggioranza della videografia arty in circolazione, ma qui ogni singolo dettaglio sembra avere un peso specifico, la forza immaginifica della regista pare incontentabile, insaziabile, ansiosa di riempire tutti i vuoti.
Già anche la prima sequenza sfoggia come un rebus dalla chiave fumosa: un palo dell’alta tensione introduce la camminata di biechi individui che indossano maschere nere alla Bane di batmaniana memoria, nel quadro di una realtà rurale che sembra fuori dal tempo, estranea al progresso, pacifica e soleggiata, e in qualche modo minacciosa. O forse sono solo le eteree movenze della camera, che fluttua al rallentatore come l’occhio di uno spirito, catturando distrattamente la quotidianità di una specie di comune femminile, fra baracche di legno e candidi panni stesi ad asciugare.
Ma passiamo alla scena madre della clip: un capanno, una ragazza con una mela in testa, un uomo che tende un arco e le punta addosso una freccia. Tutti conoscono Guglielmo Tell, non è il caso di puntualizzare. Ma ci si può fermare qui? Ovviamente no. La ragazza è in ginocchio, le piante dei suoi piedi sono colorate di rosso, e lo stesso colore ricorre a più riprese nell’abbigliamento di alcuni misteriosi spettatori che attorniano l’arciere (fra esse spunta la stessa Rosie Lowe, autrice del brano, il cui mistico canto invoca il potere degli dei egizi). Insomma, un invito a nozze per chiunque ami cogliere il senso nascosto di una rappresentazione grafica. Ah, e l’arciere è cieco, oltretutto!
La freccia viene scoccata, e, dopo un istante di sospensione, scopriamo che lo strale è passato attraverso il corpo della giovane, proprio in pieno petto. Ma lei non dà segni di cedimento, e anzi, con disappunto afferra il frutto e ne tira via un morso, quindi si allontana dal capanno. Sembra di scorgere Eva mentre addenta il famigerato pomo, con quello sguardo di sfida e collera che tiene fisso in avanti.
Fuori, fra la fitta vegetazione, l’arciere si para davanti alla sua vittima, ma adesso porta una maschera, e da eroe tragico della vicenda è diventato la personificazione di un tristo mietitore. Con brutalità strappa la freccia dal corpo della graziosa preda, e la trascina incosciente per i campi, verso il limbo che la attende.
In mezzo alla cripticità dell’insieme, sembra però scorgersi una visione unitaria nel finale del video: siamo sul molo di un laghetto, e un mucchio di ragazze (le stesse che spalleggiavano il Guglielmo Tell dagli occhi spenti) stanno lavando dei panni, o meglio, delle strisce di stoffa; i loro piedi rossi sono immersi nell’acqua, che pare tingersi di sangue.
Un limbo unisex, in poche parole.
Tutte hanno la stessa ferita al petto. Le mele mezze morsicate gettate a marcire in una cesta. Dei guardiani mascherati e ammantati di nero osservano la scena con saldezza militare, e uno di loro tiene un fascio di frecce insanguinate stretto in pugno.
Le pezze lavate dalle ragazze, che accolgono silenti la nuova arrivata con un’occhiata di mesta comprensione, sono diventate rosse come i loro piedi, e ora tappezzano i rami degli alberi circostanti, sventolando alla brezza estiva.
Tanti macabri stendardi. Tristi simboli di una piaga sociale che, come la campagna che fa da sfondo al video, sembra non temere il progresso, e resta immutata nel tempo e nelle epoche.
Dal Giardino dell’Eden ai talebani dei giorni nostri.
Sarà che quel “power” ripetuto così fastosamente da Rosie Lowe possa intendersi come un inno anaforico di coraggio e solidarietà muliebre?
Resta da sperare che un giorno l’arciere riacquisti la vista e miri un po’ più in alto.

ROSIE LOWE. MATILDA FINN. 2019.

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