VIVERE IN UNA TOMBA.
Un colombario langue placidamente sotto il sole pomeridiano, avvolto nell’inconfondibile tepore cromatico del film su pellicola.
Al centro della scena, la cui precisa simmetria prospettica avrebbe fatto felice Stanley Kubrick, una sedia vuota attende di essere occupata. Non bisogna attendere molto prima che un fisarmonicista vi si adagi col proprio strumento fra le mani.
Può partire la melodia.
Nella tradizione hitchcockiana di Nodo alla gola, Lado Kvataniya rinuncia quasi del tutto agli stacchi di montaggio, e risolve il flow narrativo attraverso piani sequenza così ben incastrati e logicamente consecutivi da lasciare l’impressione che l’azione si stia svolgendo in tempi teatrali. E teatrale è persino il contesto familiare entro cui si muove una surreale vicenda funerea, in cui un gruppo ristretto di parenti si ritrova attorno a una tavola in occasione della morte di un loro caro, che giace in una bara rossa scoperchiata proprio nella stessa sala da pranzo.
Un luogo squallido e buio, che nemmeno gli addobbi natalizi riescono a rallegrare.
Sebbene l’occasione dovrebbe – in teoria – avvicinare nel comune cordoglio i mesti veglianti, il clima non è esattamente dei più sereni: gli astanti sembrano pezzi di arredamento carnoso perfettamente amalgamati all’aria insalubre della stanza, sorretti da una tensione nefaria e da un generale incupimento emotivo.
Una parola tira l’altra, e ben presto le discussioni si alzano di tono, finché non si perde definitivamente il controllo.
Tutti abbiamo assistito a qualche lite in famiglia, magari persino sorridendo un po’ malignamente. Ma non bisogna mai sottovalutare il potere della vodka, e così basta un nonnulla perché dagli schiamazzi si passi a forchette negli occhi, pugnalate, mosse di wrestling, usi cartooneschi delle armi da fuoco e altre amenità splatterstick che piaceranno agli amanti del primo Sam Raimi.
Ancora più strano del massacrante siparietto parentale è l’improvviso risveglio del cadavere, ridestato come un bello addormentato da uno zampillo di sangue!
La salma è nientemeno che Husky, l’autore del brano, che prontamente si allontana dalla sala e, rifugiatosi in una cameretta, conversa pacatamente con un’ottava persona, allettata e imbacuccata come il più fragile degli ammalati. Trattasi di Padre Gelo, il Babbo Natale sovietico, interpretato con ironia dal regista Kirill Serebrennikov. Il suo ultimo film, Petrov’s flu, della cui colonna sonora la qui presente canzone fa parte, è stato presentato a Cannes mentre l’artista, strenuo oppositore della politica di Putin, si trovava agli arresti domiciliari.
Padre Gelo offre al rapper un telescopio magico, attraverso il quale si possono scorgere le proprie prospettive. Al cantante basta una sbirciata per dover ammettere che forse era meglio non guardare.
Al ritorno nel teatro della strage, Husky scopre che nessuno dei suoi cari è sopravvissuto alla frenesia omicida. Ma le sorprese non sono terminate: i corpi tornano spontaneamente in vita, e le ostilità cessano con la stessa immediatezza. Gli allegri neo-zombi banchettano e festeggiano con rinnovati complicità e affiatamento, servendosi una bella torta a forma di bara rossa e sorseggiando spumante.
Sarà il suono della fisarmonica che si propaga oltre le mura domestiche a distrarli dalle celebrazioni.
E resta emblematico il finale circolare che si collega direttamente al prologo nel colombario. L’inquadratura è la medesima, ma l’ambiente è cambiato: la pavimentazione si è trasformata in una strada trafficata e la fitta scacchiera di loculi in un tetro e asfissiante cumulo di appartamenti cubici.
E tornano alla memoria le parole della profezia di Nostradamus nel Demoni di Lamberto Bava: “Faranno dei cimiteri le loro cattedrali, e delle città le vostre tombe”.
Là si parlava di creature spaventose intenzionate a sottomettere la popolazione nel nome del Male; nella Russia di Husky e di Serebrennikov, invece…
HUSKY. LADO KVATANIYA. 2021.