PAPER CUP / REAL ESTATE (NICK RONEY)

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LA TRISTE CARRIERA DI UN PUPAZZO MECCANICO.

Gli animatroni musicisti delle pizzerie sono una specie di istituzione dell’intrattenimento per bambini negli Stati Uniti. Un tempo rinomati giocattoloni che accompagnavano le scorpacciate di cibo spazzatura dei pargoli, adesso sono per lo più attrezzi in disarmo, rimpiazzati da attori in costume, relegati a un immaginario collettivo che di innocente ha poco e nulla.

In fondo bisogna ammetterlo: dal topo Chuck E. Cheese all’orso Billy Bob di ShowBiz Pizza, questi grossi automi a forma di animale erano inquietantissimi già dalle loro prime apparizioni. Col tempo e con la complicità di Internet, la sensibilità del pubblico nei confronti dell’uncanny si è affinata a poco a poco, e ormai l’immagine dei mammiferi meccanici che suonano chitarre e cantano allegri inni al divertimento provoca soprattutto brividi di terrore e disagio.

La cultura pop ha dato una mano, e se già negli anni ’90 la Disney (ironicamente l’iniziatrice storica del fenomeno, coi suoi famosi parchi a tema) liberava un nugolo di terrificanti e decadenti opossum-redneck nel cartone In viaggio con Pippo, il boom dei videogiochi e dei film horror dedicati all’argomento ha assestato il colpo di grazia.

Da Five nights at Freddy’s a Willy’s Wonderland passando per The Banana Splits movie: la nostalgia ha assunto i toni di un incubo represso. I giocondi animali che in passato allietavano i party dei piccoli americani sono oggi grosse e polverose macchine cigolanti dalle voci distorte, demoniache addirittura, che sotto pellicce e ingranaggi celano inconfessabili e sanguinari segreti.

In questo contesto culturale nasce e si sviluppa il video di Nick Roney, che vede un vispo ragazzino (l’attore Alex Weyerstell è di quelli da tenere d’occhio) gasato come non mai per l’imminente spettacolo della sua star del cuore. Nessuna boyband usa-e-getta, nessuna meteora sulla cresta dell’onda, nessun rapper strafigo con cui rimare in coro: la stella in questione è Chipper, un enorme scoiattolo chitarrista con un folto ciuffo in testa e due dentoni sporgenti sotto il naso. Chipper era l’attrazione principale della sua omonima catena di ristorazione, anni addietro affollatissimo luogo di ritrovo per tante famiglie, ora squallido edificio coperto di graffiti e ricettacolo di uno scarno e stomachevole staff.

Ma al nostro piccolo protagonista tutto questo sembra non interessare: Chipper è un mito imperituro, al pari di Elvis e Jim Morrison, e ogni sua esibizione vale oro. A quanto pare non sono in molti a pensarlo, dal momento che è il solo spettatore presente in sala.

Si apre il sipario e compare Chipper: grassa cariatide pelosa, oramai parodia di se stesso, mezzo scassato e in preda a continui tic elettrici, imbarazzante roditore senza un occhio e dal sorriso ebete.
La voce di Chipper è quella di Martin Courtney dei Real Estate, che diffonde un canto malinconico attraverso i posti vacanti del ristorante. Fra una scintilla e un glitch, veniamo introdotti a brevi flash della vita di questo misero monumento alla rovina artistica.
Come per ogni brava rockstar caduta in disgrazia, gli ultimi trascorsi di Chipper si sono succeduti di tragedia in tragedia. Scopriamo i piccoli problemi con sostanze dopanti tracannate via imbuto per oliare meglio i meccanismi interni, gli insulti lanciati per strada, il modesto appartamento in cui passa le serate solitarie circondato dai memorabilia del suo glorioso e lontano successo.

Scopriamo inoltre che l’ultimo smacco del fato, quell’occhio distrutto che non è in grado di nascondere, risale a un incidente domestico con la chitarra, fatta roteare come un’elica e sfuggita al controllo: un vecchio trucchetto, un’acrobazia da palcoscenico che mandava in visibilio il pubblico, e che adesso ha posto un sigillo fisico allo stato deprimente in cui il musicista si consuma.

Forse tutto è cominciato quando un bulletto gli scaraventò contro, nel bel mezzo dello show, una bibita zuccherina. Non erano che i preamboli al tramonto del famoso viale.

Torniamo al presente, quando l’ennesimo tilt dei circuiti pone momentaneamente fine allo spettacolo. Il piccolo fan, l’ultimo rimasto, sospira amareggiato e si avvia all’uscita. Anche l’ultimo allaccio ai fasti passati si dissolve.

È davvero la fine per Chipper?

La fortuna rema per una volta a favore, e uno degli inservienti annoiati lancia una palla contro il robot.

Miracolo! Gli ingranaggi si riassestano e la musica riparte, Chipper incanta con un assolo perfetto, e il suo giovane supporter torna di corsa di fronte al palco, esultando e sfoggiando un sorriso tutto incisivi. Chipper lo guarda a sua volta, lo saluta incredulo. È il coronamento di un sogno, per entrambi.

Una lacrima verdastra cola dall’orbita vuota dello scoiattolo.

Un ultimo flash mostra il medico curante della star in procinto di dare cattive notizie: i meccanismi interni sono in pessimo stato, e il rischio di surriscaldarsi fatalmente è alto. Un brutale scherzo del destino da sommare ai mille altri. L’ultima goccia prima dell’inevitabile crisi di nervi.

Ma ora, per quell’istante, qualsiasi raccomandazione suona vacua, qualsiasi frustrazione cade nell’oblio: il bambino ride e balla come ai bei tempi andati, Chipper suona col cuore, con la grinta che credeva di aver perduto. E riesce a ripetere il suo trucchetto con la chitarra!

Dentro di lui, tuttavia, la lancetta della temperatura passa dal giallo all’arancione fino al rosso.

È la fine, davvero.

Spruzzi immani di un liquido oleoso esondano dagli orifizi facciali dello scoiattolo, riversandosi sull’attonito ragazzino.

Nelle convulsioni che precedono la morte, Chipper abbraccia il suo incrollabile sostenitore, emette la sua catchphrase, e infine si spegne, davanti a un bicchiere di carta che giace nella pozza di sangue robotico.

Una triste storia comune rimodellata in contesti anticonvenzionali, dal setup alla commistione di mood antitetici.

Vedere un dottore rovistare professionalmente nel popò di un robot alto due metri e dare con estrema gravità un responso sul suo stato di salute è qualcosa di così drammaticamente grottesco che ci si ritrova a sghignazzare di gusto con gli occhi lucidi di pianto.

E il gran finale, consapevolmente orientato verso una conclusione tragica, ha poco da invidiare al The wrestler di Aronofsky. Anzi, ripensandoci, qualche ettolitro di liquame oleoso non avrebbe certo inficiato l’interpretazione di Mickey Rourke.

REAL ESTATE. NICK RONEY. 2020.

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