DEAD CAN DANCE.
N. B. Non è la recensione di un album della dark band anglo-australiana nata negli anni ’80.
Prime luci dell’alba, in una strada di campagna, una macchina rovinosamente cappottata, frammenti di vetri sparsi ovunque e tra il fumo e le chiazze d’olio sull’asfalto, gli ultimi scricchiolii e sibili del tremendo impatto.
Poco più in là, attraverso una carrellata a ritroso si scorge un uomo riverso in una pozza di sangue, che a fatica si rianima lentamente cercando di realizzare ciò che gli è successo, incredulo che egli possa farsi ancora questa domanda e sentirsi per miracolo, ancora in questo mondo.
Una forza inconsueta si appropria del suo corpo vistosamente ferito, il tempo di riprendere confidenza con la realtà circostante e mettersi in piedi e, come una marionetta senza fili, il nostro sventurato redivivo dallo sguardo assente si libera spinto in avanti, in una danza lenta e insieme scattosa e scomposta, in una gestualità involontaria, residuo degli spasmi post traumatici.
Una coppia in moto gli passa accanto, ma senza nessuna reazione, tutta presa dal fumante scenario dell’incidente appena avvenuto.
Per lui è bastato uno sguardo fuggevole dietro di sè per accorgersi con un sussulto di una realtà totalmente differente, una amara consapevolezza, il suo corpo giace ancora lì ma l’impulso vitale lo spinge sempre più avanti assumendo l’aspetto di graduale metamorfosi, attraverso gli inserti animati e pennellate di colore che i due registi canadesi, e l’illustratore/videoartist Guillaume Vallée hanno sapientemente fuso per un epilogo di liberazione e poesia.
CEDRIK ST-ONGE. VINCENT RENE’-LORTIE & FELIX CAYER. 2019.