RABBIT HOLE / BASTIEN KEB (SIDNEY KREITZER)

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CERA UNA VOLTA LA FINE.

Un vecchio viandante percorre il mondo senza far motto, lentamente, passo dopo passo, accompagnato dal suo bastone e da un peso invisibile che lo affligge. Passa dai boschi alle strade cittadine, rema su laghi languidi e dorme all’aperto sulle panchine. Si muove per luoghi concreti senza trovarsi in alcun posto preciso, eternamente sul limitare fra il sogno e il reale.

Lungo il suo impreciso cammino, l’eremita incappa più volte in una misteriosa figura che sembra uscita da qualche anfratto del subconscio di David Lynch: una donna vestita di bianco, dalle braccia pallida e con la faccia completamente coperta di cera. L’anziano ne è intimorito (e come dargli torto?), ma nonostante i suoi tentativi di evitarla, quella si ripresenta immancabilmente, lo osserva e lo pedina, come l’autostoppista di un famoso episodio di Ai confini della realtà.

È un incombente senso di morte quello che trapela dal video di Sidney Kreitzer. Il filmmaker si serve di una precisa gamma di simbolismi e metafore per dipingere un desolante ritratto della solitudine e dell’ineluttabilità del destino. Sin dalle prime immagini, col malinconico Jay Pastelak che avanza in un gotico panorama autunnale, l’occhio della cinepresa sembra trattare la grossa pelliccia che lo avvolge come un foreshadowing esiziale.

Conchiglie appese nelle reti come monili funerei, una foschia perenne sotto al cielo cenerino, vie deserte illuminate dal rosso dei semafori: è in questo guscio tombale che si ambienta il viaggio fisico del protagonista.

Ma un percorso parallelo si insinua nella narrazione, aprendo squarci su un passato doloroso e su ferite che il rimorso non fa rimarginare, raccolti in un ermetismo allegorico che tuttavia non ne cela la matrice all’immaginazione.

Il vecchio si ritrova in una stanza ricolma di candele, una specie di camera ardente che culla pensieri penosi. Chissà quali affliggenti memorie, quali peccati da espiare, assillano la mente dell’uomo mentre si fa colare la cera fusa sulle mani, mentre si prostra nervosamente sotto il peso di amari trascorsi, mentre contempla il vuoto dell’esistenza seduto di fronte a un’enorme finestra.

Il tempo scorre, la natura fa il suo corso, ed è una realtà che dobbiamo semplicemente accettare. Che sia forse questo il monito lanciato dalla misteriosa ragazza dal viso ceroso? Sinistro fantasma legato a mesti ricordi, rappresentazione stessa della fine che aspetta tutti, e che giace inerme nei flashback come una salma da piangere. Sulla sua testa volteggiano le fiammelle di una corona di candele. Ripresa dalla giusta angolatura, parrebbe la bizzarra caricatura di una torta di compleanno. Magari l’ultimo compleanno che il vecchio festeggerà, un giorno nefasto e spaventoso, che egli cerca di tenere lontano.

Se la morte fa così paura, è perché non la si conosce. Ma è davvero così inquietante l’idea di un ciclo che si conclude, di un ritorno alla materia grezza che ci ha generato? Come le piante rampicanti che soffocano i muri della villa, i cespugli che avvinghiano le sculture, la terra che offre l’ultimo riparo alle spoglie di chi è arrivato al traguardo?

E, come la fisica tradizionale insegna, nulla si distrugge davvero, e tutto si trasforma. Il suolo si riappropria di ciò che da esso un tempo si emancipò, e quando un ciclo si conclude, ne comincia un altro immediatamente dopo.

Poetico, ma solo fino a un certo punto: quale emblema della transizione non troviamo fiori variopinti o dolci giunchi, ma piccoli funghi silvestri. Curiose entità micologiche che affiorano dal terreno e crescono fra la cera. Torna alla mente il film Gaia di Jacob Bouwer, quella bellezza travolgente che si perde fra l’orrore e la romantica liberazione. La natura è schietta, non conosce la pietà, ed è meravigliosa così com’è.

È solo nel finale che l’anziano viaggiatore si ritrova faccia a faccia con la ragazza in bianco, e capisce che continuare a sfuggire sarebbe inutile. Non si tratta di rassegnazione, ma di accettazione. E il contatto fra i due figuri sarà molto più armonioso di quanto l’uomo temesse; un passo di danza costruito sulla musica contemplativa di Bastien Keb; un riposo eterno con lo sguardo puntato sull’orizzonte del giorno che nasce.

BASTIEN KEB. SIDNEY KREITZER. 2020.

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