L’IRREALE NEL VERISMO.
A volte non è necessario fare affidamento sull’immaginazione per scovare la bizzarria di ciò che si ha attorno. Magari solo un po’, giusto l’indispensabile per estrarre dalla realtà una visione d’insieme che superi la mera concretizzazione del significante.
E se questo è vero per un po’ tutte le forme d’arte, per il cinema lo è in maniera particolare.
Il medium audiovisivo per eccellenza può rappresentare un’immagine il più possibile aderente alla quotidianità che conosciamo, documentaristica e fedele al vero così come è sensitivamente percepito.
Certo è che, in alcune circostanze, il reale è talmente estraneo alla mentalità del pubblico di riferimento che una sua riproduzione filmica assume coloriture aliene, reminiscenti del mondo dei sogni.
Ed è qui che il filmmaker NONO (pseudonimo in caps lock di Nono Ayuso) interviene, ispirato dai connazionali maestri del surrealismo.
Ripescando il soggetto dal passato del suo paese, quell’Andalusia del dopoguerra arretrata, mistica e così profondamente religiosa, propone un racconto tragico e per molti aspetti inquietante, che agli occhi (e “occhi” sarà una parola chiave del corto) del moderno fruitore di videoclip, figlio del progresso tecnologico, apparirà irrimediabilmente onirico, straniante, inconcepibile.
E nessuno storcerà quindi il naso se nella rievocazione di tempi così lontani nel tempo e nella cultura, l’autore si spinge oltre spostando sulla fascia alta la manopola della visionarietà, permettendosi qualche squarcio al velo del fantastico.
Sarà aiutato nel suo proposito dalla scelta di girare l’opera in 16mm, sfruttando il formato vetusto del 4:3 e l’irrinunciabile forza espressiva del bianco e nero e degli effetti ottici anni ’50.
La vicenda si apre su una salina, con la sconsolante scena di un umile lavoratore di nome Jesus che riceve la peggiore notizia che un padre possa ascoltare: la moglie gli annuncia fra le lacrime che la loro giovane figlia è morta.
La loro bambina, bella, innocente, ora vegliata dai parenti accorsi attorno alla sua bara.
Già da queste prime immagini si coglie un’avvisaglia del clima sognante adottato dal regista, acuito non per ultimo dal riff elettronico della canzone dei Califato ¾: la macchina da presa osserva il funerale della ragazzina come lo sguardo di un fantasma, a suon di sfuggenti e immaterici POV grandangolari.
È su Jesus che ci focalizziamo: il suo dolore incolmabile gli impedisce di accettare il lutto, lo porta all’isolamento, allo struggimento fisico e psichico, al perenne rimuginare su un’ingiustizia della natura cui non si può porre rimedio.
Ma la svolta avviene quando, in modo inaspettato, la figura della figlia si mostra all’uomo in uno specchio: è vestita come la Vergine Maria, e piange.
In preda allo sgomento, il genitore corre sulla salina e, stringendo nei pugni quegli stessi grani sapidi che stava maneggiando al momento della tremenda notizia e della straordinaria visione, contempla l’immensa figura della Madonna che veglia su di lui oltre un colle di sale.
Le apparizioni sacre continuano, e in paese si fa un gran vociare di questi miracoli: tutti vogliono vedere la Vergine coi loro occhi, tutti credono alle dichiarazioni di Jesus, alle sue preghiere, ai suoi rituali a base di sale, pianti e prostrazioni.
I paesani seguono ben presto il suo esempio, elevando Jesus al rango di guida spirituale, imitandone gesti e parole, nell’incessante speranza di assistere ai suoi incontri.
Ma il punto di non ritorno è ormai vicino, il traguardo oltre il quale non esiste un dietrofront: Jesus si arma di un coltello e, come in Un chien andalou di Luis Buñuel, taglia in due i propri bulbi oculari.
Che cosa spinga il padre a quest’ultima, definitiva prova è un interrogativo aperto. L’impulso irrazionale di un uomo che ha perso la ragione, letteralmente accecato dall’intima sofferenza? Un rito sussurrato dalla voce di una presenza trascendente, udibile solo da chi si abbandona alla fede?
O forse c’è un senso più sottile, che si spinge nell’essenza del cinema stesso? La consapevolezza che l’unica maniera per non aprire gli occhi su un reale desolante è quella di privarsene, di spalancare uno sguardo ideale sull’universo astratto, meraviglioso, in un certo senso consolatorio di un altro modo in intendere il vero.
E così Jesus, bendato e sanguinante, viene trasportato in una marcia solenne dai suoi nuovi seguaci, da quelle stesse mani che qualche scena prima avevano sostenuto la bara della figlia. Buffo che, dove prima si poggiava la soggettiva della cinepresa, ora rosseggiano le orbite vuote dell’uomo.
E nel finale alla salina, divenuto luogo di culto, padre e figlia possono toccarsi, incorniciati da sante fiamme nella contemplazione dei fedeli.
C’è da sorprendersi pensando a quanto un sogno febbrile intriso di fanatismo popolare, che oggi definiremmo un caso di isteria di massa, non sia poi così distante dalla forma mentis di tante comunità cattoliche del secolo scorso.
E, in fondo, non serve allontanarsi troppo da casa per trovarne ancora tracce evidenti.
Califato ¾. NONO. 2021.