NUMBER CITY / COHEED AND CAMBRIA (JONATHAN “DROPBEAR” CHONG)

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OPERAZIONE PASSO DOPO PASSO.

Un senso della composizione meticoloso posto al servizio di una fantasia sfrenata: ecco i requisiti essenziali per gestire la stop-motion.

L’artista Jonathan “Dropbear” Chong si serve di una tecnica d’animazione eccezionalmente dispendiosa in termini di tempo e fatica, quanto magnificamente gratificante a risultato ottenuto.
Di fotogramma in fotogramma, scatto dopo scatto, gli elementi che costituiscono la scena vengono manualmente spostati dal creatore, anche solo di pochi millimetri, dando a poco a poco l’impressione del movimento.
Bastano 24 immagini per incassare un sudatissimo secondo di vita illusoria.

Per il sound contagioso della canzone dei Coheed and Cambria, il nostro Dropbear rende onore al proprio nickname (che rimanda alla folkloristica figura di un koala carnivoro) e immerge un dolce animaletto peloso in un contesto non propriamente rassicurante: un’operazione a cuore aperto.

In quella che sembra una sala ospedaliera arredata da Jan Švankmajer col supporto morale di Stefano Bessoni, fra cefalopodi imbalsamati e modellini anatomici, un orsetto di pezza che pare scappato dall’ufficio di Wes Anderson attende di essere messo a nuovo dalle mani esperte di un chirurgo.
A ritmo di musica, forbici, siringhe e pinze si mettono a danzare attorno al paziente, descrivendo coreografici ghirigori in stile La bella e la bestia; infine, dopo l’opportuna anestesia, l’intervento può avere luogo.

Dopo la prima incisione col bisturi, non stupisce che dal corpo dormiente del pupazzo esca semplice imbottitura.
Niente di così unsettling: qualunque bambino con la vocazione medica ha iniziato tagliando e ricucendo i propri peluche.
Vagamente più scioccante scoprire che, sotto l’ovatta bianca, si nascondono organi interni carnosi e viscidi, classici scarti di macelleria!

La mente dello spettatore vola allo youtuber Ze Frank e al suo video-tutorial sull’operazione di un Teddy Bear, curiosamente uscito lo stesso anno della canzone, ma anche alla commistione di splatter e stoffa che caratterizzava quel capolavoro dell’uncanny che è Don’t hug me I’m scared.

Il corpo dell’orsacchiotto viene svuotato di quell’ammasso di viscere e ciccia cruda, e un cuore artificiale gli si adagia nel petto pronto a essere rianimato da spinotti colorati semoventi.
Ogni oggetto si muove di sua spontanea volontà, vitalizzato dal soffio dell’immaginazione degli animatori: persino le mani del chirurgo procedono scattose come qualsiasi altro arnese di scena.

Fra bridge di un’orecchiabilità commovente e un ritornello all’altezza, gli organi interni sostitutivi, questa volta di pezza come il loro ospite, si accomodano ordinatamente al loro posto, seguendo precisi schemi da enciclopedia medica per giocattoli.

Una volta ricucito e rattoppato, il soffice amico viene riportato al mondo con metodi shelleyani, a suon di scosse elettriche: nei lampi onirici che lo accompagnano alla nuova vita, il piccolo rivede la sua dolce metà, una tenera orsacchiotta che lo attende con ansia.
Eccola la migliore motivazione, lo sprint più utile per una definitiva rivalsa sulla malattia.
Omnia vincit amor!

E il delicatissimo bacio che si scambiano i due pupazzi nella scena finale riporta un po’ al mondo anche noi, nell’aura incantata di una magia weird a passo uno in cui è sempre un piacere perdersi.

COHEED AND CAMBRIA. JONATHAN “DROPBEAR” CHONG. 2013.

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