FAKING JAZZ TOGETHER / CONNAN MOCKASIN (FLEUR FORTUNÉ)

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L’IPNOTICO FASCINO DI UN RITUALE SILVESTRE.

Leggero come una piuma, duro come una tavola…

Con queste parole esordivano gli esperimenti occulti delle quattro protagoniste di Giovani streghe, piccolo cult del dark fantasy adolescenziale anni ’90. Una di loro restava distesa a terra, mentre le altre tre posizionavano entrambe le mani sotto di lei, distribuendone equamente il peso. Dunque le “reggenti” cominciavano a recitare il mantra: la formula magica si ripeteva come un canto rituale, in un crescendo mistico, finché la ragazza sdraiata non veniva sollevata dalle amiche con strabiliante facilità, rigida e leggera, quasi fluttuante.

Raggiunta una certa altezza rispetto al pavimento, le tre maghette abbassavano cautamente le mani… e sorprendentemente la loro compagna non cadeva! Restava sollevata, sospesa nel vuoto, retta da una forza misteriosa.

Questo piccolo esercizio, piuttosto popolare ai pigiama party americani, è fattibile e scientificamente dimostrabile, ma ovviamente solo la magia del cinema sarebbe in grado di tenere la cavia di turno a galla nell’aria. Meglio dunque evitare di togliere le mani al culmine dell’azione: alla forza di gravità non si scappa.

Nel video di Fleur Fortuné si assiste a qualcosa di simile, ma decisamente più suggestivo. Bisogna pensare all’idea platonica di un sogno per immaginare anche solo vagamente ciò che l’artista è riuscita a ricreare, un’esperienza in diretta che sfida la ragione e ci invita ad abbandonarla in nome dell’ignoto e della sua bellezza.

Siamo in una foresta immersa nell’uggioso clima autunnale, in una giornata fosca e umida che il sole ha deciso di disertare, e una ragazza sta correndo, come se non volesse far tardi a un appuntamento. L’occhio della cinepresa la segue, ma non appena quella si volta a guardare l’obiettivo, capiamo che non è sola. Quella fugace rottura della quarta parete svela la presenza di una seconda persona: l’uomo con la macchina da presa, l’operatore e regista pronto a registrare ogni evento, ma automaticamente anche lo spettatore che con lui e per mezzo di lui si addentrerà nella selva.

Qualcuno ha detto The Blair witch project? In effetti l’atmosfera che si respira è quella di un found-footage, ma i movimenti della camera sono fluidi, morbidi, evanescenti: nulla a che vedere con gli spasmi manuali dei soliti documentaristi sventurati da film horror.

Giunti sul luogo del ritrovo, i due visitatori si trovano dinanzi a uno scenario surreale. Alcuni personaggi, ciascuno di essi in un outfit diverso e peculiare (un giovanotto proto-hippy con chitarra alla mano, una virginea ragazza bionda, un uomo di colore seminudo col corpo coperto da pitture tribali, un pastore da vecchia comunità religiosa, e così via), se ne stanno attorno a un cerchio disegnato sul manto boschivo, al centro del quale un ragazzo scalzo si fa reggere da tre compagni, stando col corpo parallelo al terreno.

Ed ecco che la magia ha inizio: mentre la musica di Connan Mockasin entra nel vivo, in un crescendo impalpabile e travolgente, definibile solo come “stregante”, il giovane a piedi nudi si solleva da terra, raccolto da mani invisibili e trasportato verso il cielo, in un’ascesa paradisiaca, se non propriamente aliena.

Neopaganesimo? Cristianità mistica? Difficile stabilirlo, e forse anche inutile.

Uno dopo l’altro, con la stessa incantevole lentezza della canzone, gli altri componenti del gruppo lo seguono in questo ammaliante oltraggio alle leggi della fisica. La ragazza-testimone osserva il fenomeno incredula, senza parole, prima di essere trascinata anch’ella nella giostra di maschere che si librano fra gli alberi.

Il fatto che non ci siano stacchi di montaggio, il suono perfettamente incastrato nell’insondabilità delle immagini, la spettacolarità della scena sono tali che per un attimo, anche solo per una frazione di secondo, noi spettatori dall’altra parte dello schermo ci crediamo davvero.

Non ci troviamo al cospetto di elaborati effetti speciali: quella gente sta volando sul serio, la magia è vera, e quasi vorremmo farne parte, a costo di assumercene i rischi e di perdere i contatti con un reale che si è fatto ormai troppo angusto.

E in effetti tocca a noi adesso: anche l’uomo con la macchina da presa si alza, i suoi piedi – i nostri piedi – fanno capolino dal basso dell’inquadratura, mentre seguiamo il flusso ascensionale, senza fretta, con garbata solennità.

Il tempo non ha più significato, lo spazio si va a perdere in una coltre di nebbia insieme alla nostra mente.

Solo la fine della canzone ci riporta coi piedi a terra.
Eppure ci sentiamo stranamente leggeri.
Come una piuma.

CONNAN MOCKASIN. FLEUR FORTUNÉ. 2012.

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