THE INITIATION / MYKKI BLANCO (NINIAN DOFF)

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QUAL È LA VERA FACCIA?

Quando si usa la parola “incubo” a guisa di metafora, magari in riferimento a una giornata lavorativa particolarmente stressante, spesso l’accento ricade sul concatenarsi di disavventure che hanno disseminato ostacoli lungo un determinato percorso: un’odissea quotidiana che sfianca, più che terrorizzare.

Ma molte volte un classico “brutto sogno”, o per lo meno ciò che resta avvinghiato alla rete della memoria di ciascuno, ha un flow narrativo estremamente più limitato, vivendo di singole immagini, lampi di idee e assemblaggi di dettagli che destabilizzano nella loro estranea convivenza.

Il regista Ninian Doff trasporta nel grigiore della periferia londinese un perfetto quadretto da incubo, valorizzando con inappuntabile sapienza ogni elemento che lo costituisce.

Le giunture di un corpo che si sgranchiscono quasi disarticolandosi, il clima sospeso che si carica di un’intangibile forza distruttrice, l’aria plumbea che avvolge il desolato teatro urbano.

E poi si sprigiona il canto di Mykki Blanco, macabra poesia che fa dell’indecifrabilità la propria arma più temibile. Poco conta quale sia il grado di familiarità che si ha col latino: il guazzabuglio di frasi fatte e citazioni religiose, deformato dalla pronuncia anglofona, sofferta e tetramente solenne della cantante, instilla un arcano senso di ritualità oscura, una minaccia da accerchiamento condensata in un’unica voce, che trasuda un senso nefasto di inevitabilità.
Il climax sonoro in crescendo dà pieno supporto al vibe orrorifico che l’artista vuole evocare.

Ma ovviamente non ci si ferma qui: dal primissimo piano sul profilo di Mykki l’inquadratura si allarga fino a metterle in campo anche la sommità del capo. Laddove l’umana esperienza insegna dovrebbe trovarsi il cuoio capelluto, si allarga invece una seconda faccia, che recita la litania a sua volta!

Se una vista laterale del doppio volto confina l’effetto perturbante entro le barriere di uno strano fotomontaggio, la vera ansia sopraggiunge nel momento in cui l’artista si libera da ogni inibizione e si sposta fra le vie polverose gattonando come una belva selvatica, fra glitch post-produttivi e cupissimi ralenti. La testa rimane rivolta verso il manto stradale, permettendo al viso ausiliario di guardare dritto in camera.

Da bipede a quadrupede, libera dalle restrizioni di una postura antropomorfica, la Blanco non abbassa il suo “altro” sguardo, ma scruta il pubblico dall’altra parte dello schermo, quasi sfidandolo a contraddirla, a giudicarla. Siamo sicuri, a questo punto, di poter parlare di un volto secondario? Che quell’orpello mostruoso non sia in realtà il fulcro identitario di un individuo pienamente conscio della propria natura, o magari di un gruppo di individui? Uno dei tanti “diversi” che la società non riesce ad accettare.
D’altronde la Blanco, dichiaratamente transessuale e sieropositiva, deve conoscere bene l’isolamento in un mondo di “normali”.

Poco più avanti, Mykki assiste impotente a un siparietto preoccupante: un poliziotto costringe alcuni giovinastri a scoprirsi il capo per un controllo; uno di loro si rivela “double-faced”, proprio come la cantante, e viene prontamente arrestato. Di fronte a una simile prospettiva, per i reietti non resta che darsela a gambe, a vivere ai margini ombrosi, nascondendo sotto un berretto la propria anomalia.

E per chi vive in simili condizioni, l’unica fonte di sostentamento non può che risiedere nella clandestinità: gli impulsi ferini di questa nuova ‘specie’ vengono convogliati in squallidi e tenebrosi Fight Club. Volgari scommettitori osservano esultanti gli “anormali” massacrarsi a vicenda, come moderni gladiatori piegati all’ingiustizia del mondo.

Dalla gabbia sociale alla gabbia del ring: difficile capire quale delle due sia la più opprimente e pericolosa.

MYKKI BLANCO. NINIAN DOFF. 2013.

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