HUMAN KILLER / SOUR FACE (JOE MISCHO)

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IL CARO PREZZO DI UN’ANIMA LINDA.

I sensi di colpa sono una bestiaccia difficilmente domabile; anche se tutti, prima o poi, l’abbiamo affrontata per vie perlopiù meditative e conversative, per alcuni arriva un momento in cui l’unica strada percorribile è quella fisica.

Gli atti di purificazione, siano di natura religiosa o profana, non sono mai una passeggiata, ma talvolta il confine fra mondatura spirituale e mero autolesionismo si fa spaventosamente labile, e in questi casi schizzinosi e cuori sensibili si vedono costretti a distogliere lo sguardo e coprirsi le orecchie.

Ciò su cui il creatore Joe Mischo punta è la contrapposizione angosciosa fra la vaghezza di un context negato e la precisione dei dettagli inscenati.

Non sappiamo nulla del protagonista del video: come si chiama, dove si trova, quali avvenimenti lo abbiano condotto lì. Lo seguiamo in rispettoso silenzio, accompagnati dalle note dei Sour Face, mentre si inoltra in un labirinto sotterraneo di corridoi decadenti e sporchi stanzoni industriali. Reca con sé una valigetta e una chiave, garantendosi libero accesso ad ascensori e porte chiuse con lucchetti.

Chissà da quanto tempo quei luoghi sono rimasti vuoti prima che il nostro vi ci si addentrasse, in quella che parrebbe una notte come tante.

L’uomo, dall’aria smunta e sofferta, si guarda attorno con attenzione, esplora l’ambiente senza troppa fretta, soffermandosi su un onisco che zampetta sull’instabile luce al neon della struttura. Un piccolo essere, solo nell’immensità di quell’umido grigiore.

Poi, come se ormai fosse una pratica collaudata, stende un telo di plastica sul pavimento, lo fissa con cura con del nastro adesivo, e vi ci si inginocchia sopra. Flash rossastri dai sentori sanguigni intervallano la sequenza: lampi luminescenti e nebbiosi che spaccano squarci sul futuro (o sul passato?), senza promettere nulla di buono.

Davanti a un paio di specchi, cautamente, l’uomo si strappa un lembo di pelle dal petto, lasciandosi un doloroso ovale rossastro, di cui quasi riusciamo a percepire l’insostenibile bruciore. Una diversa pratica di purgazione testata in tempi precedenti? O istantanee di ciò che avverrà in seguito?

Torniamo nella grande camera fredda, sul famoso telo, e scorgiamo che fra i piccoli utensili che il protagonista si è meticolosamente portato dietro si stagliano le forme aguzze di alcune lamette.
Un taglio sulla gamba: lento, penoso, inesorabile.

L’uomo tenta stoicamente di trattenere le grida, mentre le sue dita rovistano nella ferita aperta. Ci sorprende scoprire che, spulciando fra i tessuti vivi, il povero penitente ha rinvenuto una strana biglia nera, come un onisco chiuso in se stesso. Una minuscola perla di peccati sepolti, scheletri nell’armadio, mostruose memorie.

Solo la terrificante inquadratura finale, degna erede di La ragazza del terzo piano di Travis Stevens, rivelerà che, sotto la pelle del nostro, brulica un’intera comunità di quelle invasive bestioline: mostriciattoli che strisciano pochi millimetri sotto la superficie del corpo, insidiosi parassiti da estirpare uno per uno al richiamo della sofferenza, a costo di rimetterci la vita.

E come andrà a finire questa brutta storia? Il regista non ce lo racconta, così come aveva taciuto le premesse: la disturbante frustrazione dell’ignoto esacerba il disagio delle immagini.

SOUR FACE. JOE MISCHO. 2020.

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