AKIMBO / ZIAK (BLEU DÉSERT)

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IL PESO DEL SANGUE.

Quando si parla di precarietà, ormai tendiamo ad associare il termine al mondo del lavoro, alla condizione che purtroppo si ritrovano a fronteggiare numerosi giovani il cui futuro è fonte di sempre più incertezze.

Ma se si dovesse rappresentare metaforicamente il concetto di “precario”, forse l’immagine di un funambolo su una corda sospesa a centinaia di metri di altezza, o di un pattinatore su un lago ghiacciato circondato da ragnatele di crepe, sarebbero più che valide opzioni.

Insomma, è attorno all’idea di “equilibrio” che la mente annoda i suoi innumerevoli allacci semantici. Il collettivo Bleu Désert si serve appunto della figura di una bilancia per immergere lo spettatore in un universo che fa dell’instabilità nefasta la sua chiave di volta.

Non una bilancia qualsiasi, però: quella che apre il video da lui diretto per il rapper mascherato Ziak è una vera e propria opera dada costruita a partire da lame, pugnali e mazzi di armi legati assieme. I due piatti se ne stanno immobili sullo stesso livello, come le braccia di una croce letale. E da ogni lato del curioso strumento partono decine di fili che si perdono nel buio.

Precaria: così è l’esistenza dei protagonisti della clip, criminali da strada e membri di organizzazioni para-terroristiche che trasformano di giorno in giorno il loro habitat urbano in macellerie a cielo aperto, tra fucili ed esecuzioni.

Vediamo lo stesso Ziak fermo in piedi, attorniato da una nube di coltelli scagliati contro di lui da ogni direzione, fissati in un istante del tempo come la scena più famosa dello storico Matrix. Sembra che basti un nonnulla perché la mano del caos prema il fatidico tasto del “play” e l’azione riparta, condannando l’artista alla morte.

E intanto la gente continua ad ammazzarsi, le auto vengono bruciate, la giungla metropolitana si ricopre di fiumane di sangue nero come il petrolio, che scorrono dense lungo le vie tingendo di pece il grigio dell’asfalto.

Non è al realismo che il trio di videomaker punta, né alla linearità narrativa, o al diretto didascalismo: il loro è un collage simbolico e altamente espressivo, tanto brutale e agghiacciante quanto seducente sotto il profilo visivo, aperto a reti allegoriche che si accavallano e si ingarbugliano, scena dopo scena.

Il sangue scuro riempie i piatti della bilancia, rischiando di comprometterne la simmetria; a ogni minima variazione i cavi si tendono un poco; cavi che avvolgono il grilletto di una pistola saldamente fluttuante nell’aria, pronta a far fuoco non appena la tensione avrà superato il limite. Ma chi andranno a colpire? E chi muove i fili? E se c’è qualcuno capace di giocarci a proprio piacimento, quali sono le sue motivazioni?

Basta un cenno del destino perché degli ignoti sicari disposti in cerchio si uccidano l’uno con l’altro in una sardonica girandola di morte. È sufficiente uno sparo imprevisto perché i coltelli che minacciano Ziak capitombolino a terra lasciandolo incolume. La macchina da presa guarda sottosopra l’impero della distruzione, e le fiamme divampano, arrivando persino ad ardere il foulard che nasconde il viso del rapper, tramutandolo nella parodia moderna del “fumoso” pirata Barbanera.

All’altro capo dell’intricatissimo, indistricabile groviglio di corde legate alla bilancia puntuta, lo stesso Ziak si impone come contraltare umano di quest’ultima: il suo corpo proietta dovunque centinaia di filamenti, facendolo assomigliare a una delle vittime del sadico enigmista di Saw.

Chi tende i fili? Chi aziona le pistole? È il cantante, la cui voce grintosa e arrabbiata aggiunge pathos in quell’inferno di metallo e cemento? Oppure il sangue dei morti? O qualcuno che osserva dall’alto, nella comodità del fuori campo?

Precario. Tutto così dannatamente precario.

E un bang! segna la fine dei giochi.

ZIAK. BLEU DESÉRT. 2021.

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