MIRACLE / LABRINTH (SACHA BARBIN)

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IL VALORE DELL’IMMAGINAZIONE.

Ci sono canzoni così armoniosamente toccanti, così musicalmente espressive, che ti fanno venir voglia di svitare del tutto i rubinetti dei dotti lacrimali, e lasciarti andare a uno di quegli sfoghi di pianto dolcemente liberatori che non ti concedevi dai giorni della prima superiore.

Ebbene, le capacità emozionali della voce di Timothy Lee McKenzie, in arte Labrinth, fanno ricadere il qui presente brano nella suddetta categoria. Ascoltando il pezzo a occhi chiusi, sprigionato il genio narrativo che si conserva più o meno nascostamente nel cuore di ognuno, non c’è limite al numero di storie che si possono inventare, col mero suono delle note come unico direttore d’orchestra delle immagini che si andranno a costruire.

Storie di rivalsa, di redenzione, di superamento delle traversie e di purificazione dell’animo, che potrebbero persino attingere a una vera e propria dimensione spirituale, se non del tutto religiosa.

Per una manciata di minuti ci si può inebriare dell’estasi di una mente creatrice, fabbricare mondi interi che parlano di sentimento e con sentimento, arrivando direttamente al cuore di chi li evoca. Come un piccolo film scritto e diretto da noi, e solo per noi. Insomma, una magia! Una specie di piccolo miracolo di cui la musica, come ben poche altre forme d’arte, è in grado di farci dono.

Ed è il caso di dirlo: il video con cui Sacha Barbin ha trasposto in veste grafica la composizione del cantante inglese, rendendo ogni spettatore della Terra partecipe di quel flusso di sensazioni e figure che, altrimenti, sarebbero vissute solo nella mente dell’autore, ha dapprincipio dell’incredibile.

Attraverso un montaggio frammentario, che sovrappone presente e passato e confonde in una certa misura l’identità stessa dei soggetti in campo, Barbin racconta la vicenda di un bambino solitario e meditativo, nato e cresciuto in un quartiere malfamato, ma dotato di uno dei più preziosi regali di cui la natura può degnarci: l’immaginazione.

“Immaginazione” è appunto il titolo di un libello, un diario di illustrazioni nel quale il ragazzino ha raccolto un immenso campionario di visioni e desideri personali. Sarà anche un cliché sopravvissuto dai tempi di Icaro, ma l’idea di spiccare il volo, mandando tanti cari saluti a quell’opprimente forza di gravità cui non ci si può sottrarre, è forse la più chiara esemplificazione della fantasia sfrenata, il Sogno con la S maiuscola.

Dunque, tra bozzetti di ali e disegni di uomini-uccello, assaporiamo la purezza del delirio infantile del nostro giovane protagonista, lo seguiamo mentre si arrampica su un albero e tenta di lanciarsi nel vuoto come un Buzz Lightyear in erba, solo per cadere rovinosamente al suolo perdendo i sensi.

Nel frattempo un misterioso uomo d’affari, giunto sul luogo in abiti eleganti, del tutto estraneo al degrado che lo circonda, si presenta nella cameretta del ragazzo. La caoticità dell’editing condanna alla fumosità la comprensione degli accadimenti, ma sembra che il misterioso visitatore sia incuriosito dal citato libercolo.

Una sfogliata di pagine, una firma non ben precisata, lampi di sguardi avidi…

E il risveglio. Il bambino riprende conoscenza, e, per quanto suoni insulsa come espressione, sembra che i suoi sogni siano diventati realtà: non è più un ordinario fanciullo di una miserabile periferia ghettizzata, ma un essere nuovo, coperto di piume, metà umano e metà uccello. Un po’ inquietante, ma speciale, dentro e fuori.

Ovviamente i suoi gretti vicini reagiscono inizialmente nel peggiore dei modi, puntando addosso a quello strano mostro un fucile carico! Ma il povero incompreso ha ancora una dote nascosta, che non manca di rivelare ai suoi persecutori in una delle scene più emozionanti su cui si possa fantasticare: spalancando un paio di ali, il ragazzo si solleva dalla strada, raggiunge finalmente l’agognato cielo, e con lui si alza il meraviglioso ritornello di Labrinth.

Cosa non si darebbe perché la storia finisse su questa istantanea!

Gli sguardi commossi della madre del piccolo, lo sforzo impossibile di un animo innocente portato a compimento in barba alla crudezza della realtà, i volti attoniti dei vecchi nemici che colgono tutta la bellezza dell’evento, in un’epifania visiva da grande cinema…

Peccato che il finale non sia questo.

Ora venerato come una sorta di divinità, il giovinetto siede su un trono collezionando offerte votive dai suoi nuovi discepoli: collane, ori, orpelli preziosi. Sono questi i frutti del suo raccolto immaginativo. Non più lo splendore intangibile della poetica genuinità di un’idea, ma pesanti gioielli – anzi, catene – con cui dar risalto a una posizione di potere.

Un flashback meno segmentato ci consente di avere una visione più limpida di quanto accadde nella stanza del bambino poco prima della “trasformazione”: quel distinto business man, che ora attraversa la soglia in coda agli altri fedeli, reclama la propria parte di un accordo stipulato in tale occasione. Una firma su un documento in cambio del libriccino chiamato “Immaginazione”, quasi un patto faustiano che baratta la materialistica realizzazione del successo con l’astratta – eppur dannatamente reale – sorgente di ogni incanto artistico, lirico, emotivo.

Non è forse questo il più grande pericolo cui va incontro ogni musico, cineasta, idealista? Abbandonare il candore per “vendersi” a chi promette con mefistofelico interesse una gioia subitanea e meno vaga?

Ecco, è questa la nota di amarezza con cui si chiude il corto. La stessa amarezza che trasforma un potenziale pianto di gioia in un magone insoddisfatto. Una mesta disillusione, al pari della gracile farfalla che, se prima volteggiava leggiadra come il soffio dell’ispirazione, ora giace morta, schiacciata e rinsecchita fra le pagine del quadernetto.

Una bella storia, quella che il regista ci ha raccontato… Ma siamo sicuri che fosse quella che volevamo sentire?

Barbin, mi devi una lacrima!

LABRINTH. SACHA BARBIN. 2019.

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