LET IT HAPPEN / TAME IMPALA (DAVID WILSON)

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LA MORTE COME UN SEQUEL DI AIRPORT.

Aeroporto semideserto sotto la tenue luce di un mattino nascente. I prodromi malinconicamente synth-psichedelici del brano dei Tame Impala non promettono alcunché di vivace.

Un uomo sulla quarantina, ben vestito, ordinato, il classico look da tipo affidabile cui aspirano i business men, si avvicina all’area d’imbarco con la sua inseparabile valigetta. Procede svelto e un po’ impacciato, in quella che sembra la compita parodia di una corsetta, tipico andamento da viaggiatore ritardatario.

Ma sul suo volto si legge qualcosa di più di una semplice preoccupazione per un orario da rispettare: un malessere opprimente, che aumenta passo dopo passo. Quello non è solo affanno da stress, ma un vero affaticamento fisico.

Mentre si fa strada verso tra le poltrone quasi completamente vuote del terminal, il suo improvviso rallentamento, accompagnato da un’allarmante morsa al petto cui segue un’inevitabile smorfia di dolore, trasforma in realtà quel timore che già si iniziava ad avvertire.

L’uomo si accascia a terra, supino, stordito e inerte, facendosi suo malgrado emblema degli infausti frutti che la vita frenetica, incessante, sfiancante di un workaholic rischia di recare con sé.

E se il corpo resta immobile, incapace di reagire agli stimoli esterni, la mente ha ancora un po’ di tempo per passare in rassegna memorie e fantasie, metabolizzare le sensazioni, allegorizzare le idee.

Eccolo, dunque, cadere in una voragine apertasi sul pavimento, solo per ritrovarsi seduto in aereo, mentre una hostess gli consegna una sveglia gigante che segna le 7 e 49. Una riproduzione in grande del piccolo strumento diabolico che lo ha costretto a gettarsi giù dal letto, incurante della stanchezza, costretto dal dispotico senso del dovere a tuffarsi la faccia nell’acqua gelata e a ingollare una manciata di pillole.

Il tempo, il maledetto, imprescindibile tempo che programma le giornate di ciascuno e scandisce ogni azione quotidiana, persino i più piacevoli momenti di svago.

Ma il tempo e lo spazio non hanno più molto senso: basta che il nostro moribondo rotei lo sguardo e passerà dalla stanza d’albergo all’aeroplano, e poi di nuovo all’aeroporto, dove qualcuno dei presenti si è fortunatamente accorto della sua concretissima condizione.

In aereo la situazione precipita, e con essa anche il velivolo: dopo l’inquietante esibizione canora di un panino imbottito, degna dei migliori musical surrealisti in piazza, il finestrino posto accanto al nostro si spalanca, risucchiando al di fuori tutto ciò che non è abbastanza saldo da restare al proprio posto. Lo scenario sembra estrapolato dal prologo di Final destination, eppure nessuno dei passeggeri pare accorgersi del disastro: stanno tutti sopiti, indifferenti, quasi in una dimensione a parte.

Disperato e terrorizzato, l’uomo tenta di liberarsi dalla cintura e di fuggire il più lontano possibile, ma è tutto inutile: altre tre cinture spuntate dal nulla lo incollano al sedile, incatenandolo a quella stessa esistenza tumultuosa, fatta di trasferte, ingaggi e grattacapi, che ora si sta letteralmente disintegrando attorno a lui. E con lui dentro.

In men che non si dica lo ritroviamo in caduta libera fra le nubi in cielo, sempre aggrappato al suo sedile, del tutto privo di controllo. La sua liberazione dall’abbraccio aguzzino delle cinture è seguito dagli spasmi allucinogeni che le scariche di un defibrillatore gli provocano nel “mondo reale”. Forse non tutto è perduto: i soccorritori sono all’opera, si scorge un lieto fine all’orizzonte.

Ma lui resta immobile sul pavimento del terminal, mentre dall’altra parte continua a precipitare, cullato dalla pienezza del vuoto.

Dopo un po’, in effetti, la caduta sfuma in un volo leggiadro, e per la prima volta da quando il video del regista David Wilson è iniziato, percepiamo una maschera di serenità sul volto del bravo Michael Instone: l’ultimo viaggio che mai compirà, trasportato verso il placido lume dell’astro diurno.

Sembra proprio che la vacanza di cui tanto il nostro avrebbe avuto bisogno durerà in eterno. Un monito valido e umanizzante per tutti i lavoratori là fuori, non c’è che dire.

TAME IMPALA. DAVID WILSON. 2015.

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