HEAR MY PAIN HEAL / SEVDALIZA (IAN PONS JEWELL)

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I COCCI DEL SUBCONSCIO.

Una lenta zoomata in avanti ci porta all’ingresso di una villa di campagna, immersa nel blu notte di una fotografia fredda, idealizzata quanto elegante. Solo una delle finestre è illuminata, e il bagliore tremola, vacilla, come una lampadina in procinto di fulminarsi.

Una volta all’interno dell’edificio, l’occhio etereo della m.d.p. si muove attraverso la soglia del salone, laddove si svolge la scena principale di questa strana commedia.

Un’inquieta giovane donna – la stessa Sevdaliza, autrice del brano – osserva in ginocchio la figura di un uomo inerme, steso a terra di fronte a lei, con la testa nascosta sotto un tavolo. Si direbbe la scena di un crimine, quasi l’opening di un racconto di Agatha Christie; magari in una di quelle trasposizioni ultra-dark curate da Sarah Phelps per la BBC.

L’extreme close-up sull’occhio della cantante rimarca la sua profonda angoscia, che quasi si tinge di orrore nel momento in cui la pupilla le comincia a pulsare, proprio come quel lume dalla finestra nell’incipit. Cosa lega la donna a quel corpo senza vita? Chi o cosa è il responsabile della sua morte?

Nell’altra stanza una signora più anziana apre e chiude l’anta del frigorifero, al ritmo opprimente e ipnotico della musica, accendendo e spegnendo la sin troppo abbagliante luce che da esso proviene.

Chi è questa enigmatica dama? È forse l’autrice del delitto, ammesso che di delitto si tratti? E qual è il fine del malsano e ripetitivo rituale che sembra logorarle l’equilibrio psichico?

Sul suo volto è dipinta la logica evoluzione di quel tormento che affliggeva i tratti di Sevdaliza: apatia, follia, il peso di un trauma mai esorcizzato. La luce si trasforma in flash ossessivi, degni di un incubo da epilessia.

Proprio quando la sequenza stava per trasformarsi nel remake firmato David Lynch di un filmaccio anni ’90 intitolato The refrigerator (vedere per credere), la signora chiude l’anta una volta per tutte.

La struttura del video si fa oniricamente sempre più frammentaria. Sevdaliza prega sul suo letto, accudita dalla materna e imperturbabile accompagnatrice, come se entrambe cercassero di convivere col dolore, chi nel mesto silenzio, chi nell’espiazione spirituale.

Ma è l’atto centrale il vero fulcro surrealista della vicenda.
Torniamo al cadavere senza faccia, e alla cantante iraniana inginocchiata accanto ad esso: in un disperato tentativo di rianimare l’esanime, la nostra opta per un violento massaggio cardiaco a un pugno solo. È qui che il regista Ian Pons Jewell spiazza tutti: l’ultimo colpo frantuma il busto dell’uomo come un vaso di terracotta! Il corpo si sbriciola pian piano, creando una voragine di vuoto.

Sevdaliza si affaccia su quel macabro abisso, su quell’oscuro limbo che si proietta nel buio infinito. C’è un cuore che palpita; o meglio, un grumo al mercurio liquido, un blob sospeso che ondeggia seguendo le note della melodia. Forse l’ombra di un male atavico che non si riesce a domare.

Improvvisamente le mani della salma emergono dalle tenebre e schiacciano l’instabile bolla in un unico, deciso applauso, trascinandola via.

E se tutto questo non fosse già sufficientemente straniante, il finale non arretra: la cantante, che nel frattempo si è spogliata e ha lasciato il morto a piedi scalzi, si reca nella camera accanto, coprendosi i seni con le grosse scarpe che ha raccolto. C’è qualcosa di affettuosamente infantile nel suo gesto, ma anche di eroticamente estatico, come si evince dall’orgasmica serenità con cui si stringe gli scarponi al petto, o dall’aria implorante con cui conclude gli ultimi versi della canzone.

Ma è impossibile rimediare a un errore passato, risanare un sentimento adombrato dalla crudezza della realtà: le scarpe invecchiano, si fossilizzano e si polverizzano. Cosa resterà quando anche l’ultimo granello sarà scivolato via dall’abbraccio della giovane?

Il video si interrompe, esattamente come un sogno finisce prima che possiamo venire a capo dei suoi segreti. E la frustrazione che ci lascia addosso nella sua brusca inconcludenza è pari solo alla bellezza delle sue immagini.

SEVDALIZA. IAN PONS JEWELL. 2017.

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