BE THERE / SEDIVY (SAM SULAM)

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LA DANZA DEI TORMENTI INTERIORI.

Il regista Sam Sulam gioca la carta del “poco”, e vince la partita.

Ci sono pochi colori nel suo video, poche location, pochi avvenimenti, addirittura un solo personaggio. Ed è giusto che sia così.

Da qualche parte fra l’autunno e l’inverno, quando il freddo pungente muove i primi passi e costella di neve il terreno, in una radura sperduta nella foresta, entro le mura di una casa isolata, siede meditabondo sul suo letto un giovane a torso nudo.

Non si sa a cosa stia pensando, mentre fissa i fiocchi bianchi oltre i vetri della finestra, ma la sua espressione non lascia adito a dubbi circa il suo umore.

Mestizia, malinconia, forse rimorso…

Le parole di Sedivy che aprono didascalicamente il clip stesso – “ti ho sentito implorare, ti ho sentito supplicare, e ho deciso di non esserci per te” – gettano una luce fioca sui capitoli passati di una brutta storia.

Il ragazzo, interpretato dal ballerino Kevin Middleton, percorre turbato gli stanzoni della dimora, finché la sua attenzione si sofferma su una vecchia scatola di sigari, riciclata come cassetta dei ricordi. Spulciando fra le polaroid, il nostro ne raccoglie una e la esamina con afflizione.

Solo in seguito scopriremo che il soggetto della foto è una bella ragazza, serena e nel fiore degli anni. Quale sia stata la sua sorte resterà un mistero, ma non occorrono poi troppi sforzi di fantasia per figurarsi qualche possibile e spiacevole scenario.

Kevin esce dall’abitazione e passeggia per gli spogli sentieri del bosco, percorrendo tappeti di foglie morte, costeggiando le chiazze nevose che candeggiano i toni marrone della natura sopita.

Ma le pene segrete che lo affannano non gli danno tregua, e anzi, è proprio all’aria aperta che si manifestano fisicamente. Come se quelle memorie, dotate di energia propria, si abbattessero sulle sue membra con tutta l’amarezza che portano con sé, il nostro comincia a contorcersi, a dimenarsi come una marionetta, a piegarsi come un fuscello al vento.

Non si tratta, tuttavia, dei movimenti scomposti di un ossesso, non sono gli spasmi di una persona disperata che perde il controllo, tutt’altro: quelli sono passi di danza.

Esibendosi in un pregevole numero tersicoreo, ideato dallo stesso Middleton, questi si prostra letteralmente ai climax aspri del brano di Sedivy, ne segue la linea melodica con un’aderenza più espressiva che ritmica, conferisce forma e interpretazione alla musica e, al contempo, concretizza il male da cui è oppresso.

Non è forse questo il fine ultimo dell’arte? Materializzare un’emozione, un’idea, darle armonia e consolidarne l’anima. E non importa quanto caotica o apparentemente sgraziata si presenti, o quanto sgradevoli siano le sensazioni che suggerisce: la dissonanza si fa equilibrio, l’angoscia si fa catarsi.

Dalle torsioni compulsive di un uomo depresso può dunque sbocciare una coreografia.

Le tonalità glaciali della fotografia di Sean Dahlberg (che persino i capelli innaturalmente lattei del protagonista sembrano assecondare), fra un bilanciamento del bianco prepotentemente spostato nella zona dei blu e la letargia insatura delle tinte autunnali, ingentiliscono l’accorata performance.

Un ruscello scorre stanco tra le dita di Middleton, i suoi occhi carpiscono i silenzi degli alberi, l’orizzonte del futuro gli si para davanti come un pianeta alieno da conquistare fra odisseici tormenti. Ma si deve andare avanti, se si vuole superare il dolore. Giorno per giorno, rialzandosi dopo ogni caduta. Fino in fondo al cammino.

E la conclusione circolare calza a pennello.

SEDIVY. SAM SULAM. 2019.

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