DEEP DOWN LOW / VALENTINO KHAN (IAN PONS JEWELL)

VIDEO ARK ||| Recensioni Video Musicali

NON SI PUÒ SCENDERE PIÙ IN BASSO…

Con un ritmo intriso di ossessività sottocutanea e un testo che suona più come un mantra da turbe mentali, non ci si poteva aspettare altro che un videoclip completamente fuso di testa.

Ian Pons Jewell (artista qui più volte già trattato) risponde a chiunque si sia mai chiesto, anche solo una volta nella vita, che cosa significhi farsi un “bad trip”.

Siamo a Tokyo, in una delle innumerevoli viuzze commerciali che pullulano di passanti, quando un giovanotto arresta lentamente la propria marcia. L’aria di spiacevole sorpresa che gli si legge in volto ben si appaia alla sudaticcia trasandatezza che gli scompiglia il look.

Forse la febbriciattola che gli era cominciata quella mattina è peggiorata di colpo, oppure quel drink gentilmente offerto dall’amico fattone di turno conteneva qualche additivo non propriamente lecito… sia come sia, il delirio sta prendendo il sopravvento.

Letteralmente trascinato lungo la strada lastricata da una forza invisibile, sospeso a mezz’aria con solo le punte a sfiorare terra, il nostro pensa impulsivamente di rifugiarsi in una piccola tavola calda, di sedersi, riprendere fiato e rimettersi da quello strano malessere.

Ma l’irresistibile martellio musicale di Valentino Khan non si arresta, e anzi, sembra coinvolgere nel suo tramestante turbinio tutti i frequentatori del locale: dalla clientela al personale, non c’è nessuno dei presenti che non stia puntando uno sguardo accusatore contro il poveretto. Pare un bizzarro sogno polanskiano, uno di quegli horror settari dove persino i muri sembrano osservarti con inquietante e subdola voracità.

La cameriera serve bruscamente un bicchiere d’acqua al nostro, che non ha neanche il tempo di portarselo alle labbra, giacché il medesimo si svuota spontaneamente davanti ai suoi occhi. Ovviamente preoccupato, questi si accorge che la gente attorno a lui è vittima di incessanti tick nervosi, che seguono impeccabili le percussioni del deejay losangelino: dita che picchiettano sul tavolo, denti che tremano, bocche che mimano in playback la voce distorta del cantante.

Quando il contagioso coro finisce per coinvolgere anche il pesce morto sul bancone dello chef e quello non meno animato di una foto incorniciata sulla parete, è chiaro che la situazione è in procinto di degenerare.

In un’escalation di deformazioni corporali a suon di After Effects, le facce e gli arti degli astanti si allungano, si abbassano, si rialzano e si ritraggono in perfetta sincronia con la base musicale.

Occhi che si allargano, fauci che si restringono, dita che si distendono, ma non finisce qui! Tutto d’un tratto la cameriera si fa sbocciare due tentacoli piovreschi dalle orbite, peggio che in un racconto di Lovecraft!

Quindi la ragazza si curva all’indietro, in maniera quasi seducente, secondo qualche traviatissimo modo di considerare gli eventi, e la macchina da presa ci concede l’onore di precipitarci in un giro di giostra giù per il suo apparato digerente.

Dalla bocca all’esofago, “deep down low, deep down low…”, metro dopo metro, prima di penetrare nel cavo orale di un’altra persona, e poi in quello di un’altra, e un’altra ancora… ed è amaramente prevedibile quale sia la via d’uscita da questo biologico tour in discesa.

Insomma, è come guardarsi un sequel di The human centipede, nientemeno che in “inner vision”!

La lacrima che scende sulla guancia del visionario protagonista ricorda non poco quella di Daniel Kaluuya durante la celebre scena d’ipnosi in Scappa – Get out; che Jordan Peele abbia buttato un occhio sul video?

E per il gran finale in crescendo, due fanciulle inscenano una frastornante danza al centro del locale, quando i visi dei consumatori e dello staff hanno ormai perso qualsiasi connotato umano, ammassandosi in maschere di anonima carnosità.

Infine, incapace di resistere, anche il nostro eroe resta invischiato nell’orgia sformante: annuisce ritmicamente, libera un terzo occhio sulla fronte, e per concludere in bellezza se ne torna in strada privato come gli altri clienti della propria identità facciale. Omologato, conquistato dalla massa, piegato alla morte dell’individualità sotto i colpi lisergici della psichedelia incontrollata.

Se Jewell lavorasse al Ministero della salute, non stupirebbe una didascalia in coda: “Don’t do drugs, kids”.

VALENTINO KHAN. IAN PONS JEWELL. 2016.

author
Subscribe
Notificami
guest
0 Commenti
Oldest
Newest Most Voted
Inline Feedbacks
View all comments
0
Would love your thoughts, please comment.x