I AM CHEMISTRY / YEASAYER (NEW MEDIA LTD.)

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ALTRO CHE “PIANETA SELVAGGIO”!

Quello dell’astronauta che precipita su un pianeta sconosciuto, ritrovandosi in un mondo del tutto estraneo alla logica umana e alle convenzionali leggi fisiche è uno dei più gettonati archetipi della fantascienza.

Per il brano elettroni(ri)co degli Yeasayer, il collettivo di artisti New Media Ltd. propone una rielaborazione del tema tanto mind-blowing sul piano visivo quanto folle su quello concettuale.

L’universo creato dagli animatori è un set infinitamente espandibile, che unisce e sovrappone pupazzetti mossi a passo uno e CGI renderizzata con mirata imperfezione, in un intruglio che a malapena permette di distinguere una tecnica dall’altra, amalgamate sotto l’egida implacabile dell’uncanny.

Basti dare uno sguardo al volto dell’eroina spaziale di turno, inespressiva come una figurina, simile alla maschera anonima di un vecchio videogioco smarrito sul Dark Web.

La giovane, scaraventata fuori dalla sua navicella dopo un violento impatto e col casco in frantumi, si contorce in preda agli spasmi. Che si tratti dei brutti giochi della pressione o di qualche gas tossico nell’aria, la ragazza rovina a terra.

È già finita per lei? In verità è appena cominciata: in una sequenza che lascia poco all’immaginazione, il corpo morente della donna partorisce letteralmente una replica di se stessa. Una copia imperfetta a dir poco, rachitica e orribilmente deformata, come una Barbie mangiucchiata a lungo da un cane di grossa taglia.

L’astronauta giace inerme, ormai ridotta a involucro vuoto, priva di vita.

Ora tocca al suo malformato doppio avventurarsi nell’ignoto.

Questo gran belvedere riesce a muoversi liberamente attraverso la nuova atmosfera, e comincia una corsa disperata lungo le valli psichedeliche che compongono il palcoscenico.

Teste mozzate di giganti e montagne più simili a enormi sculture di arte moderna si innalzano sulle piane sterminate di quella strana terra, punteggiata di un verde acido che ricorre in svariate forme e dimensioni, fra surrogati di vegetazione, luci di origini misteriose e minerali non classificati.

Insomma, è come se gli scenari di Annientamento di Alex Garland fossero stati ingurgitati da un software di modellazione 3D e risputati dopo arcani tragitti mentali da un visionario dedito alla claymation.

L’informe creatura femminea, incuriosita da una specie di bulbo fungino, ha la poco accorta idea di toccarlo. In quattro e quattr’otto, neanche si trattasse di una matrioska, l’essere partorisce una grossa sacca crisalidea, che a sua volta dà vita a un nuovo doppelganger; ancora più raccapricciante, ancora più lontano dalle sue originali fattezze umane.

Sarà anche un caso, ma chi ha visto il finale del film Men del 2022 potrebbe notare qualche similitudine… possibile che Alex Garland sia un membro segreto del team di New Media Limited?

Oltrepassato un varco verde, sperimentata la sconvolgente bellezza del tramonto di questo Altrove Interstellare, il mostro incontra alcuni dei bizzarri abitatori del pianeta.

In concomitanza con l’inciso strumentale della canzone, un ballerino di plastilina dai tratti facciali scarni, piroettando sui suoi piedini di filo di ferro, intrattiene con una danza l’ospite da un altro mondo. Di lì a poco, altri due omini si uniscono allo spettacolo.

Quello che sembrava uno show di benvenuto, si trasforma in un rituale pseudo-hippy degno dei Na’vi di James Cameron: dal terreno sbucano smisurati fiori dai colori fluo; sulla loro sommità brillano sfere di polline di quel tono di verde che si direbbe perseguitare la mutante cosmonauta. Proprio quest’ultima, avvolta dai lampi smeraldini delle piante, soccombe come in preda a un’improvvisa asfissia.

Nel frattempo, in quello che pare un tempio circolare costruito in cima a una montagna, ci si trova catapultati in una variante sci-fi del The Wicker Man di Robin Hardy: un gruppo di vestali aliene, descrivibili come “Grigi” color rame ossidato e in maschera da emoji, canta e balla in perfetta sincronia.

La soavità dell’esibizione di queste danzatrici è pari all’inquietudine che emana dal loro aspetto, ma un poco al di sotto dell’esaltante effetto lisergico che scaturisce dai cromatismi della scenografia.

E per il gran finale, l’ormai irriconoscibile protagonista si ripiega all’indietro, vinta da una forza invisibile.

L’ultimo stadio della sua metamorfosi la vede riempirsi di piccoli boccioli verdi fosforescenti, che a mo’ di muffa si propagano su di lei, intorno a lei, dentro di lei: nel giro di qualche nota, un’immensa e spumosa colonna colorata si solleva fino al cielo nero della notte.

Lontano, il cadavere della viaggiatrice interplanetaria riposa sul suolo spoglio, là dove l’avevamo lasciato.

E se tutto ciò che abbiamo visto non fosse altro che l’ultimo grande trip della sua povera mente, in procinto di spegnersi per sempre?

Magari un giorno lo scopriremo. Chissà, se mai David Fincher decidesse di rivolgersi alla New Media Ltd. per la nuova stagione di Love, death & robots

2016. YEASAYER. NEW MEDIA LTD.

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