FRASTORNAMENTI AUTOPTICI.
La Morte è la grande incognita, e in quanto tale, al netto di speculazioni filosofiche o spirituali, fa paura.
Un cadavere, un corpo umano svuotato di ogni forza vitale, un mucchio disanimato di ossa e carne, il più tangibile e inequivocabile simbolo fisico della Fine, nella sua fredda e immota naturalezza, spaventa di conseguenza.
Insomma, anche se aver visto il film Nightwatch di Ole Bornedal, chi smanierebbe di essere assunto come guardiano di un obitorio?
Ma dai dottori ai becchini, c’è chi con i morti lavora ogni giorno a tempo pieno, e, come si suol dire, “ormai ci ha fatto il callo”. Soggetti perfetti per i patiti di humour nero, che sovente tendono a parodiarne l’apparente insensibilità professionale inscenando siparietti grottescamente macabri. L’immagine del medico legale con un bisturi nella mano e un panino mezzo mangiato nell’altra è quasi diventata uno stereotipo del genere.
Ed è proprio su un anatomopatologo col suo spuntino fra le dita che si apre il video diretto da Bob Gallagher: nell’asettica cornice di una camera mortuaria, il riconoscibile volto dell’attore irlandese Brendan Conroy pregusta con soddisfazione un semplice tramezzino, impeccabilmente sistemato al centro di una scatoletta di metallo.
La precisione millimetrica con cui il cibo è stato posizionato, la meticolosità con cui viene maneggiato, il sorrisetto preoccupante sulle labbra dell’uomo, lasciano presagire quegli affondi di psicosi e delirio che il crescendo ritmico dei Gilla Band già sta portando a maturazione.
E poi ecce homo! O meglio, ecce corpus. L’ingresso dell’ennesima salma da sezionare, pallida e supina sul suo tavolo operatorio, interrompe il parco banchetto del medico, costringendolo a rimettersi all’opera.
Ma non si nota una vera riluttanza sul volto di Conroy, né si evince la fretta di chi avrebbe preferito concludere la pausa pranzo: quel nudo corpo maschile sembra attrarlo per vie che trascendono il mero piacere feticistico, che eludono qualsiasi percezione di sanità mentale. Le incalzanti note di chitarra distorta, l’ossessivo ritornello, le percussioni martellanti del gruppo dublinese imprimono di cruda ironia le già angosciose immagini.
Il dottore incide il torace, lentamente, perfettamente lungo la linea dello sterno, assaporando ogni molecola carnosa che il filo della lama sta separando al suo passaggio. Un vero professionista, dunque? Be’, data l’enfasi con cui affonda le mani nella ferita, rovistando fra i muscoli sanguinolenti della povera salma, estraendo organi interni e brandelli carnosi in uno stato di artistico – se non estatico – appagamento, fra sogghigni e goliardici saltelli, qualche dubbio è lecito farselo venire.
E la situazione precipita nel momento in cui il cuore viene ripulito e riposto nell’apposita bacinella: l’organo comincia a battere a tempo di musica, ponendo le basi per un vero e proprio rave party a dimensione morgue!
Di lì a poco persino il cadavere inizia a cantare in playback, e Conroy lo aiuta ad alzarsi dal tavolo, come un surreale neo-Frankenstein insieme alla sua creatura. In un climax parossistico da sconquassare il cervello, i due si scatenano in un ballo sfrenato e spasmodico, facendosi beffe l’uno della propria diligenza lavorativa, l’altro nientemeno che del rigor mortis.
Chi credeva che il finale dell’Autopsy di André Øvredal fosse perturbante, dia pure un’occhiata agli spasmi scomposti di questo peculiarissimo “John Doe” danzereccio, e tragga le sue conclusioni!
Ebbene, una volta interrotte le danze, ricucito il taglio e ricoperto con cura il corpo, il medico è libero di tornare con la proemiale pacatezza al suo frugale pasto.
E anche se non scopriremo mai “perché nascondono i loro corpi sotto il garage” del cantante Dara Kiely, possiamo comunque bearci fra i rimasugli di frullato meningico che il videoclip ci ha lasciato nella scatola cranica.
GILLA BAND. BOB GALLAGHER. 2015.