LA MAGIA DELL’ARTE AI GIORNI NOSTRI.
Si sa che il cinema è nato come una sorta di grande illusione ottica, un elaborato giochino di fotografie in movimento con cui intrattenere la folla per intervalli di pochi minuti.
Dall’alto della nostra esperienza, ovviamente, possiamo solo immaginare quale meraviglia dovessero suscitare negli spettatori di fine ‘800 quei primordiali filmati di treni e giardinieri che si animavano scattosi sul grande schermo.
Chissà quanti osservatori si saranno arrovellati il cervello cercando di capire come quei peculiari prestigiatori chiamati proiezionisti riuscissero a esibire simili prodigi! Quali principi scientifici, quali trucchi ottici e diabolici macchinari fossero necessari per dar vita a un’immagine…
Eppure persino oggi, dopo più di un secolo che l’invenzione dei Lumière ha esordito nel buio di una sala e che tutti i segreti tecnici della sua magia sono stati svelati, capita di trovare una creazione talmente avulsa dall’ordinario, tanto irreale nelle sue sembianze e di natura così polimorfica da lasciarci a bocca aperta, curiosi di scoprire come è stata realizzata.
Questo può capitare contemplando il video di Isaiah Saxon e Sean Hellfritsch, in arte Encyclopedia Pictura, diretto per Björk nell’ormai non così recente 2008 e portato a termine negli stessi tempi di una gravidanza umana.
Opera sperimentale e ricercata almeno quanto il brano della cantante islandese, tanto da essere stata originariamente concepita in 3D, seguendo e sublimando un trend all’epoca molto in voga a Hollywood e dintorni: un vero e proprio progetto artistico che mira all’esperienza audiovisiva a 360 gradi.
Sarà anche che il perfezionismo raggiunto dalla grafica digitale nel corso degli anni rende ormai difficile distinguere le figure modellate e renderizzate al computer da quelle invece “tradizionalmente” riprese dal vivo, ma in questo caso è soprattutto la bizzarria dei soggetti rappresentati – dai colori alle forme, dai movimenti ai rapporti prospettici che sussistono fra l’uno e l’altro – a farci di primo acchito domandare quali metodi siano stati utilizzati per ottenere simili composizioni filmiche.
La stessa Björk si presenta in un costume stile antica civiltà mongola, su un prato circondato da montagne innevate, nei pressi di un placido fiume dove si sta abbeverando una mandria di yak. Il cielo è piatto come un dipinto, l’erba ricorda quella di un grosso plastico, gli animali somigliano a marionette giganti, l’acqua del rivo pare un telo di gomma trasparente lievemente smosso da invisibili burattinai.
Che stiamo guardando? Si tratta di un palcoscenico, o è una scena ricreata digitalmente? Sono veri pupazzi quegli yak, o forse anche loro sono stati partoriti da un qualche software di animazione in CG? La cantante sta davvero interagendo con quel mondo alieno e strabiliante, o è stata aggiunta in post-produzione dopo aver recitato su uno sfondo verde?
È stimolante e fascinoso porsi tali quesiti mentre l’inesplicabile incanto emanato dal clip – fra il perturbante e il carnevalesco, fra l’infantile e lo spirituale – cattura l’occhio del pubblico come il più abile degli ipnotizzatori. E anche se, col trascorrere dei secondi, ci si può fare un’idea sommaria delle varie tecnologie adottate dal duo di registi, la bellezza dell’insieme non sfuma, non si attenua.
Björk scava nel prato davanti a lei, creando un moto acquoso che ben presto tramuta le calme onde del fiume in una tumultuosa corsia di flutti e rapide, le cui innaturali increspature rammentano milioni di sottili stringhe in variegate sfumature di blu.
Spinti dal fiume impetuoso, la donna e gli yak discendono lungo la valle verso una destinazione ignota, in un viaggio che non sembra aver fine, quasi un giro sulle montagne russe dell’eternità.
Che la meta finale possa non riservare sorprese piacevoli viene suggerito dall’inquietante compagno avvinghiato alla schiena della protagonista: si tratta di uno strano essere mingherlino, dal corpo ingrigito di fango, con indosso una maschera di gomma che lo rende curiosamente simile al figlio del Vendicatore Tossico in The Toxic Avenger IV.
Certo è che siamo lontani anni luce dall’umorismo demenziale della Troma! Anzi, il singolare figuro suscita una profonda malinconia e un forte senso di disagio, pesando palesemente sulle spalle di Björk come un fardello che ella è costretta a trasportare. Insomma, la personificazione di un male intimo, di un demone personale da cui non si può liberare, neanche abbandonandosi alla mercé del flusso inarrestabile del destino.
In groppa a uno yak che ha ormai assunto il ruolo di singolare imbarcazione, Björk e il suo cruccio antropomorfo si esibiscono in una specie di ballo acrobatico, acutizzando l’essenza di spettacolo-totale che costituisce il concept del video stesso. La danza diviene pertanto supplemento espressivo dell’arte musicale e di quella figurativa.
DI punto in bianco, due occhi burattineschi si aprono sulla superficie del fiume, anticipando l’emersione di un’enorme e spaventosa divinità buddhista, che, considerate le sue movenze meccaniche e ripetitive, parrebbe uscita da un grande carro allegorico.
La creatura, beffarda guardiana del fato, si para davanti alla navigatrice, e con le sue gigantesche mani scava un affluente fluviale nel terreno, che ben presto muta in una rovinosa cascata. Björk non può opporsi alla forza trainante dell’acqua, e insieme alle sue bestie galleggianti si prepara a precipitare nell’abisso sotto di loro.
Durante la caduta, il mostriciattolo che le stava aggrappato al dorso si separa da lei, ma è la stessa cantante ad afferrargli le mani, in un gesto di pietà autoriflessiva, quasi di accettazione e forse superamento nei riguardi delle ombre che funestano il proprio io.
La voragine liquida che risucchia la ragazza e i suoi accompagnatori, raggiunto il fondo della cascata, culmina infine nell’aposiopesi: le mani della divinità li attendono, bramose ma al contempo accoglienti, se non paterne, lasciando la conclusione del viaggio una suggestiva incognita.
Suggestiva, sì, proprio come un trucco di moderna magia.
BJÖRK. ENCYCLOPEDIA PICTURA. 2008.