ARCOBALENI TRAGICI.
Sacrificio degli ultimi, sfruttamento delle classi inferiori, plutocrazia inselvatichita, nefandezza affogata nello sfarzo, la disumanità della disumanizzazione, il voyeurismo travestito da arte, la morte come spettacolo, la morte come estasi ferina, l’annientamento dell’innocenza, il rifiuto della purezza, la volgare perdizione dei sensi nella realtà edulcorata e sfalsata di una società diversamente vedente.
Quasi una tempesta concettuale quella proposta dal duo di artisti Ugo Bienvenu e Kevin Manach, autori per il gruppo electro-pop dei Jabberwocky di un video tanto superbamente animato quanto eccezionalmente armonizzato alla tragica orecchiabilità del brano.
Del clip non stupisce solo la matura ruvidezza di movimenti tipica delle animazioni “adulte”, con un occhio di riguardo verso certi tratti dinamici orientali, ma anche e soprattutto l’assetto stilistico dei disegni, modellati su uno stile esplicitamente fumettoso, dalla lineart alla colorazione.
E, considerati il contesto della storia e le tematiche da essa evocate, la scelta di un simile approccio illustrativo pare più che calzante, immerso in un’innaturalezza cromatica e caricaturalità antropomorfica degne delle più mordaci graphic novel.
Ci troviamo in un futuro non meglio specificato, in cui le automobili somigliano più a mini-astronavi sospese a qualche centimetro dalla strada, e la maggior parte della popolazione – per lo meno quella benestante – è solita indossare degli stravaganti occhiali dalle lenti variopinte, come tanti piccoli arcobaleni inaciditi. L’aria ha assunto un’innaturale pigmentazione tiepida, e il rosa sembra uno dei colori che va per la maggiore – sia in natura, sia nel vestiario, sia nell’architettura.
Anche l’auto che sta sfrecciando sulla strada deserta, tornante dopo tornante in una zona montana, è verniciata di rosa.
Al posto di guida siede un uomo ben curato, mentre sul sedile del passeggero se ne sta pensierosa e con un’espressione grave in volto una ragazzina di non più di dodici anni, con indosso un semplice vestitino giallo. Nessuno strano occhiale sul suo piccolo naso: il suo sguardo scruta serio l’ambiente circostante, in silente attesa che il veicolo giunga a destinazione.
La meta ultima sembra essere un lussuoso residence, alto come un grattacielo newyorkese, dove bizzarri figuri in abiti eleganti (per quanto elegante possa ritenersi una moda vestiaria a un passo dall’universo di Hunger Games) aspettano con ansia l’arrivo della giovane. È un tripudio di subdolo viscidume e volgare sfarzo mondano che non lascia presagire nulla di buono, specie alla luce dello spersonalizzante effetto che quegli strampalati occhiali psichedelici donano a chi li porta.
Il gran momento è finalmente giunto: la macchina si ferma all’entrata del villone e la bambina si avvicina all’ingresso con impassibile determinazione, e un velo di mesta rassegnazione.
Da non meglio identificati ricconi con scagnozzi al seguito che osservano la scena dai piani più elevati dell’edificio, ai variegati ospiti della struttura che sorseggiano divertiti i loro drink, al responsabile che accorre a braccia aperte ad accogliere la piccola, tutti fremono dall’eccitazione, chi più manifestamente, chi meno.
Ma che cos’è mai andata a fare una povera dodicenne in mezzo a quella folla di assatanati della classe abbiente? La risposta si paleserà solo nelle ultime sequenze del video.
La protagonista, scortata dal responsabile, giunge attraverso lunghissime scalinate e ascensori chilometrici a una rampa sospesa nel vuoto, in prossimità del tetto del residence, avvolta nelle nubi e schiaffeggiata da folate di vento. Il suo accompagnatore la invita a spingersi fino all’estremità di quel portentoso trampolino, al di sotto del quale si proietta un abisso fatale. Dopo un attimo di esitazione, sempre consigliata dal cicerone di turno, la bambina prende coraggio, e trattenendo il respiro adempie a quello che riconosce essere un suo triste dovere.
La piccola si lancia dalla sporgenza, mentre la calca di imbellettati signori guarda di sotto soffocando un sadico entusiasmo. Forse quegli occhiali così vivaci rifrangono la dura verità verso lidi più dolci, ma da come qualcuno di loro si copre le lenti con le mani, aprendo le dita solo quel tanto che basta per dare una sbirciatina curiosa, si è portati a pensare che a monte vi sia una semplice, disgustosa, attrazione morbosa.
E noi spettatori restiamo attoniti, assistendo impotenti a un evento così scioccante: la bambina urla e si dimena inutilmente, vinta dalla forza di gravità, condotta inesorabilmente verso un destino atroce.
Un fotografo fra gli astanti del pianoterra, già opportunamente posizionato a pochi metri dal luogo dell’imminente impatto, si prepara a eseguire uno scatto al momento giusto, su una specie di agghiacciante set adibito per l’occasione.
Come in una folle ed estrema rappresentazione di performing art, come in un’esibizione “colta” delle più basse e meschine voluttà intrattenitive che l’insania collettiva (quella che, a dispetto di secoli di evoluzione e compromessi comportamentali, languisce nell’essere umano dai tempi dei gladiatori nelle arene) è in grado di nutrire.
E noi, inerte pubblico da casa, non riusciamo a distogliere lo sguardo, magari nella vana speranza che all’ultimo momento il duro suolo si spacchi in due, come una conchiglia, e che una specie di enorme air-bag affiori dalle viscere della terra, attutendo la caduta della ragazzina, salvandole la vita.
Ma nulla di tutto ciò avverrà.
E nell’ultima inquadratura del clip, lentamente smascherata da un intreccio di dissolvenze al nero, si staglia il frutto fotografico di quel crudelissimo rituale: la bambina a un paio di centimetri dal suolo, poco prima dello schianto mortale, immortalata per sempre nell’ultima frazione di secondo della sua esistenza, in un quadretto che non sfigurerebbe sulle pareti di un museo degli orrori.
Un agnello sacrificale consapevolmente immolatosi alla gloria dell’arte? L’innocenza di un’intera società beffardamente ridicolizzata, sradicata dalla coscienza comune, all’alba di una nuova era che non conosce pietà né compassione?
Difficile dare una risposta certa al perché di siffatta atrocità, ammesso che ne esista una. Noi spettatori non possiamo fare a meno di vergognarci di aver assistito allo show fino all’ultimo istante, proprio come tutti quegli altri mostri contro cui puntiamo il dito, senza neanche poterci nascondere dietro l’attenuante di un’empatia inibita dal filtro ottico di un arcobaleno.
Ma ciò che più spaventa è che, forse, vaghe sensazioni di terrificante bellezza, di nausea sublimata, di proibita fascinazione, siamo riusciti persino noi ad avvertirle, contemplando quella maledetta foto…
JABBERWOCKY. MANACH & BIENVENU. 2015.