ARE WE STILL MARRIED? / HIS NAME IS ALIVE (THE QUAY BROTHERS)

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NELLA TRAPPOLA DEL BIANCONIGLIO.

Il legame “spirituale” dei fratelli Stephen e Timothy Quay, guru dell’animazione weird a passo uno, col maestro Jan Švankmajer è fatto assodato, e quale miglior argomento per sottolinearlo una volta di più se non il Paese delle Meraviglie di carrolliana memoria?

Okay, il videoclip – ma si potrebbe tranquillamente catalogare come cortometraggio, facendo peraltro parte della serie Stille Nacht firmata dai due registi – non sarà un diretto omaggio alla celeberrima Alice, ma quando in una stessa scena dai contorni onirici compaiono bambine, conigli bianchi e i semi delle carte, come si potrebbe pensare a un altro nome?

A maggior ragione quando uno dei più importanti e rinomati lavori di Švankmajer è proprio quel capolavoro della stop motion datato 1988 che porta il titolo di Qualcosa di Alice. E se già quel film era inquietante di suo, qui i gemelli americani rimarcano ancora più nettamente le inclinazioni creepy del soggetto avvolgendo il tutto in un lynchiano e disturbante bianco e nero.

La canzone degli His Name Is Alive sembra muoversi parallelamente rispetto alle immagini, senza seguirne il flow narrativo-tematico, ma assecondando il mood cupo e un po’ malinconico che da esse emana.

Una paletta a forma di cuore che ha due occhi senza volto disegnati su un lato e una picca incatenata sull’altro è solo il primo degli innumerevoli criptici simboli che compongono la surreale scenetta. Da uno degli occhi dipinti scende una lacrima, che si trasforma in una sorta di bulbo luminoso svolazzante, come una Campanellino senza Peter Pan.

Una stanza favolisticamente spoglia, somigliante a una vecchia soffitta progettata con fanciullesca inventiva, è l’angusto scenario in cui si svolge l’azione.

Una bizzarra lanterna con gambe scheletriche e scarpette ai piedi si divincola in sussulti di vita. Un coniglio di pezza si anima e cerca di acciuffare la piccola sfera lucente, che sfarfalla e oscilla come una strana lucciola impazzita. Accanto a lui, una bambola-bambina dal volto coperto si alza e si abbassa meccanicamente sulla punta dei piedi, restandosene tuttavia ferma sul posto. È lei a stringere fra le mani la misteriosa paletta illustrata che ha aperto le danze.

L’artigianalità costitutiva dei vari elementi – la stessa “lucetta” è ricavata da una pallina da ping pong – assoda la perturbante enigmaticità del teatrino. La fissità scenografica del quadretto riporta alla mente la claustrofobica sensazione di essere imprigionati in un incubo, se non in una vera e propria fase della vita che non accenna a cambiare, e di cui ormai si inizia ad accettare l’opprimente insuperabilità.

Un’infanzia senza fine.

Si prenda ad esempio quella bambola, stancamente programmata per muoversi su e giù, senza andare da nessuna parte, conscia dell’ipnotica futilità dei propri movimenti. Anche il coniglio la imita con annoiata coordinazione, ma quasi più per svago, come un bimbo che gioca a fare l’adulto senza cogliere il senso delle proprie azioni. E basta un nonnulla per distrarlo.

Ed è proprio il coniglio il co-protagonista più dinamico, attivo, pronto a sgusciare da un angolo all’altro della cameretta al fine di acchiappare quella tonda Trilli fuori controllo. Ma i suoi sforzi saranno vani.

E intanto il mondo fuori dalla finestra si agita, tenta di entrare nella stanza bussando con forza, e finisce per indispettire l’orecchiuto peluche vivente. Chissà, magari è proprio lui l’inconsapevole aguzzino di quella galera fatta della sostanza di cui sono fatti i sogni.

Fra incomprensibili grafemi e leccornie simboliche che avrebbero fatto gola a Luis Buñuel (il dito della bambola è spinato come una rosa, il che, se associato alla sagoma cuoriforme della paletta, evoca certe rimembranze di iconografia cattolica), lo spettatore si ritrova invischiato in un rebus materico la cui soluzione perde inesorabilmente valore al cospetto della fascinosa e fosca messinscena.

E infine, l’umanissimo e mesto occhio che, da sotto la maschera di tela della bambola, scruta il pubblico al di là dello schermo, chiude il video con una vera impennata a sorpresa sulla scala dell’uncanny.

HIS NAME IS ALIVE. THE QUAY BROTHERS. 1992.

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