QUE TE ADOREN / ELI ALMIC (FLAVIA QUARTINO)

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ALTRO CHE DOCCIA FREDDA!

Una delle sequenze più celebri e celebrate, analizzate e citate, scopiazzate e parodiate nella storia del cinema: l’immortale “scena della doccia” che nel 1960 terrorizzò gli spettatori di tutto il mondo e di fatto cambiò il genere horror per sempre.

Psyco, forse il capolavoro assoluto di Alfred Hitchcock, ancora oggi viene osannato da schiere di cinefili, studiosi e artisti, che negli anni si sono cimentati in dissertazioni meticolose al riguardo e operazioni di “rimodernamento” rivolte al nuovo e al vecchio pubblico.

Si ricorda il controverso remake di Gus Van Sant, sorta di sperimentale fotocopia che ne riproponeva pari pari inquadrature, musiche e dialoghi: le reazioni della critica furono contrastanti, ma quasi tutti concordano che ogni raffronto con l’originale decreti quest’ultimo come indiscusso vincitore.

O, tanto per dare una pacca di incoraggiamento alla cultura trash tricolore, si pensi allo spoof Il silenzio dei prosciutti di Ezio Greggio, che propinava in forma melbrooksiana (coi dovuti ridimensionamenti artistici, ovviamente) i principali passaggi del prototipo.

Da simili presupposti parte la videomaker Flavia Quartino, che riprendendo con precisa aderenza i frame hitchcockiani sostituisce alla figura di Janet Leigh quella di Eli Almic, autrice del brano in esecuzione.

Ovviamente immersa in una fedele fotografia in bianco e nero, la cantante uruguayana imita passo passo le famose mosse della povera Marion Crane, mentre la sua voce risuona in background illustrando la spietatezza e gli abusi dell’industria musicale.

Già, niente violini di Bernard Herrmann a questo turno.

Mentre la donna si sta rilassando sotto l’acqua corrente, una sagoma minacciosa – dapprima confusa, poi sempre più nitida – entra nel bagno e si avvicina alla tenda della doccia.

La storia non cambia: ancora una volta la “signora Bates” fa calare il suo fallico coltello sul corpo inerme della malcapitata vittima: quest’archetipica immagine di brutalità virile, malatamente punitiva, nei confronti di una femmina, viene qui tradotta in una sorta di allegorica denuncia dello show business.

Saranno il killer e la sua lama assassina una sorta di personificazione del corpus maschiocentrico di manager, agenti e produttori, nelle cui mani l’artista – e più generalmente la donna del settore discografico – diventa carne da macello alla loro mercé?

Fra sequenze ricostruite e altre direttamente estrapolate dal film del ’60 (e chi lo conosce a menadito non farà fatica a riconoscerle), la regista porta a compimento il truce delitto.

Ma siamo poi certi che di un vero delitto si tratti?

Con una strizzata d’occhio alla tradizione filmologica (com’è noto ai fan, Hitchcock non ha mai ripreso la lama del coltello penetrare le carni dell’attrice, lasciando che fossero le gocce di sangue e il velocissimo montaggio a suggerire l’idea di un mortale ferimento), verremo a scoprire che, di fatto, Eli non è stata neanche sfiorata dall’omicida: il suo ventre è incolume, neanche un graffio sulla sua pelle.

Lo sguardo della cantante è sbigottito almeno quanto quello dello spettatore, eppure si deve stare al gioco: anche a costo di sottomettersi a un plateale gioco di mistificazione, la morte deve raggiungere il suo culmine scenico.

Almic così si accascia nella vasca, strappa le tende e, come da copione, esala l’ultimo respiro sul pavimento della stanza. Che non sia davvero esanime è ben chiaro: le pupille reagiscono alla luce, i piccoli movimenti del volto non passano inosservati, e addirittura, con un ultimo sguardo rivolto fuori dal campo, la cantante sembra chiedere il permesso per potersi rialzare.

Ma è quello che il pubblico vuole, o più specificamente quello che al pubblico si vende: come dicono negli States, “if it bleeds, it leads”.

ELI ALMIC. FLAVIA QUARTINO. 2020.

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