ALDAN REIÐ / ORKA (HEIÐRIK Á HEYGUM)

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L’ULTIMO RICHIAMO DELLA TERRA.

I paesaggi brumosi, il cielo cinereo, il clima plumbeo della natura sconfinata che, colle dopo colle, montagna dopo montagna, si perde all’orizzonte fra i banchi di nebbia.

Ancor prima di conoscere contesti, cause e pretesti, il videomaker Heiðrik á Heygum catapulta efficacemente lo spettatore in un selvaggio ambiente nordico, mistico, ostile, ma anche di estasiante bellezza, e il pensiero non può che volare alle terre desolate dell’Islanda, o a qualche zona sperduta delle Highlands.

In realtà ci troviamo esattamente a metà percorso, sulle isole Faroe, luogo natio di Jens L. Thomsen, co-fondatore insieme alla londinese Francine Perry del duo ORKA, il cui grave ed evocativo sound corrobora quel sentore di remota, favolistica tragedia delle immagini.

Inerpicandosi per i pendii rocciosi, fustigato dalle intemperie, un gruppo di personaggi entra in scena. Il loro abbigliamento non lascia trapelare indizi su quale sia l’epoca in cui si svolgono i fatti: quegli abiti semplici e vissuti, tipici di una piccola comunità rurale, potrebbero avere cent’anni come appena un paio. Solo la presenza di qualche torcia elettrica ci riporta a un periodo storico più vicino all’attualità.

Ciò che invece non lascia dubbi è il patimento distinguibile sui loro volti, deformati tanto dalla fatica della scalata quanto dall’apprensione per un qualche nebuloso male che li affligge.

La ragione per questa frettolosa migrazione di massa si può presumere non appena l’occhio della macchina da presa si sofferma sul primo piano di un uomo: pur non udendo la sua voce, intuiamo che sta chiamando – anzi, gridando – un nome, nella speranza di ottenere una rincuorante risposta.

La disperazione del suo viso è un tratto comune dell’intera folla: una donna che, afflitta ma perseverante, si regge lungo il tragitto al braccio di un’amica, richiama immediatamente l’idea di una madre in preda all’angoscia, tormentata dalla paura peggiore che un genitore possa concepire.

È chiaro, a questo punto, che quella sia una spedizione di ricerca: un piccolo membro della popolazione si è smarrito da qualche parte, e ogni secondo che passa la probabilità di ritrovarlo sano e salvo si abbassano inesorabilmente.

Cambio di scena, e la triste soluzione del mistero viene brutalmente svelata: a faccia in giù, sulla superficie di un lago vulcanico, galleggia il corpo inerte di una ragazzina. Ormai è troppo tardi. Si può solo aspettare che la piccola salma venga avvistata e recuperata fra le lacrime dei familiari.

Che cosa è capitato a quella poveretta? Inizio ideale per un thriller norreno, un giallo drammatico consumato fra sospetti reciproci, segreti morbosi e amarezza repressa. Ma no, non è questo il caso, non è questo il punto.

A sorpresa, il regista introduce una sfumatura sovrannaturale nella vicenda, un tocco di cupo incanto che affonda le radici nel folklore locale: un agglomerato di individui, emersi da un’enorme pietra, si esibisce in una strana e sensuale danza.

Sono simili a esseri umani, tutti di sesso maschile, e affiorano dal terreno dalla vita in su; hanno la pelle grigia, come le rocce in cui si nascondono, e i fisici scultorei di statue dell’età classica.

Il loro enigmatico rituale consiste nell’accarezzarsi a vicenda, strusciandosi reciprocamente ogni centimetro di pelle, con foga quasi orgasmica.

Si tratta degli Huldufólk, il “popolo nascosto”, tradizionali figure della cultura islandese e faroese, imparentati con elfi e troll. Sono esseri pacifici, ma che è meglio non disturbare, che incarnano una parte di quello spirito della Natura verso cui bisogna portare assoluto rispetto.

La curiosa rappresentazione omoerotica che Heiðrik á Heygum propone, conferisce certe tonalità tristemente “sociali” alla loro condizione di isolamento…

Forse commosse dalla morte di una giovane innocente, queste creature si premurano gementi di trascinare fuori dall’acqua l’indifeso cadavere, che comincia a muoversi come trainato da una fune invisibile. In una bizzarra marcia funebre, il corpicino prono avanza lentamente sulla terraferma, solcando un prato: sembra che proprio i fili d’erba, simili a esili ma solerti dita, lo stiano spostando, di centimetro in centimetro, in direzione degli stessi Huldufólk.

È per l’appunto in quel bigio groviglio di arti, torsi e teste che la fanciulla scompare, inglobata in qualche modo dalla Terra che un giorno non così lontano la partorì. Una volta che il candore del suo faccino e l’infantile purezza delle sue treccine si sono eclissati nel terreno, gli aitanti compagni pietrosi tornano alla loro primordiale e immota forma.

Non resta più alcuna traccia di loro, né della ragazza.

Quasi un gesto di compassione della Natura in persona, leggibile come un ritorno alla polvere, un senso di appartenenza a Madre Terra e di laica rinascita, come il nudo suolo che occupa l’ultima inquadratura sembra suggerire.

Eppure non si può fare a meno di pensare all’ambiguità della questione, a quegli sventurati genitori che non sapranno mai quale sorte sia toccata alla figlioletta… Il confine fra atto di pietà ed egoismo, fra degna sepoltura e occultamento di cadavere, si va assottigliando!

Ma questi sono metri di giudizio prettamente umani: dalla Natura tutti nasciamo e la Natura ci richiama tutti, inevitabilmente; essa si mostra incurante dei volgari sentimenti di noi mortali, rimanendo fedele alla spietata magia che regola il cerchio della vita.

E tutto sommato, considerando come l’uomo tratta il suo bellissimo pianeta, a questi Huldufólk non si può dare torto!

ORKA. HEIÐRIK Á HEYGUM. 2011.

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