CROW DI FOREST SWORDS.

Immagina: qual è il rumore che fanno sette miliardi di individui che abitano un condominio grande come il mondo.

Si alzano, strascicano i piedi fino al bagno. Tirano lo sciacquone, si lavano pigramente. Poi caffè e colazione veloce, quasi inutile. Lavoro, pranzo, lavoro, cena, per chi se lo può permettere. Cullare i figli dal pianto e vederli crescendo diventare come i loro padri, come le loro madri e un po’ come il loro mobilio.

Miliardi di miliardi di respiri. Miliardi di miliardi di miliardi di battiti di cuori. Miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di parole.

Assordante. Asfissiante. Opprimente sovraffollamento morboso. Il caos, la spersonalizzazione. Avere come consolazione solo prodotti convenzionali, tempi omologati, spazi di vita, di decisione e di pensiero ristretti e limitati.

E poi?

Sembriamo destinati a vite uguali, desideri uguali, speranze uguali e le dimensioni più intime, le attese più private, i segreti più profondi e inconfessati: uguali!

Incapaci di inventarsi, di determinarsi.

Come un incidente o un’ingiuria dietro ad ogni angolo il rischio di non esistere, di non esserci, di non essere niente, di non essere più, di non essere mai e che essere sé stessi, questo se stessi che ci accompagna dalla nascita e ci lascia alla morte, non sia abbastanza per accorgerci di noi.

Sto parlando del video “Crow” di Forest Swords. Volo lento e inesorabile di uno sguardo che incontra solo il vuoto dell’affollamento.

Ipnotico e inquietante video che guardo e riguardo come una meditazione, come un’esortazione spaventosa, tutte le volte che ho da prendere una decisione, da prendere una posizione e che quello iato, quel raccapricciante niente pieno di niente mi faccia rimandare almeno per un momento la mia fissa tendenza al procrastinare.

Forest Swords. Liam Young. 2018.