CHOREOGRAPH / GILLIGAN MOSS (OSCAR HUDSON)

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LA COLAZIONE PIÙ LUNGA.

Stanzetta con arredamento minimale, colori insaturi, ordinata e anonima. Un tavolino apparecchiato frugalmente divide l’immagine perfettamente a metà. Tre pareti visibili. Una porta d’ingresso sulla sinistra e un altro paio di passaggi che si affacciano sul resto dell’impalpabile abitazione. Una scenografia. Niente di più.
Un ragazzo si siede al centro dell’ambiente, il tavolino davanti, il piatto vuoto che attende di essere riempito. Sguardo pigro, un braccio ingessato, outfit trasandato che ispira indolenza. Indossa un paio di cuffie e si immerge nel ritmo ipnotico della canzone dei Gilligan Moss, seguendo il tempo con movimenti incessanti della testa.
Ed ecco che, dopo piccoli stacchi subliminali di enigmatica natura, la scena si anima e intervengono altre figure: una donna (presumibilmente la madre del nostro) entra distrattamente depositando un uovo al tegamino sul piatto, quindi passando da un uscio all’altro ripete l’operazione… e ancora… e ancora… uovo dopo uovo, dalla padella al piatto.
Un bambino (diciamo il fratello minore) si tiene occupato girando di corsa attorno a una parete, il padre lamentoso assesta un colpetto di giornale sulla nuca del protagonista ed esce dalla stanza, la sorella beve una bibita e passa in un’altra camera, la nonna si prende i suoi tempi per percorrere il tragitto inverso rispetto alla madre. E così via. In loop. Le presenze si sovrappongono e si armonizzano, vanno e vengono, esondano e arretrano, entrando nella spirale mesmerica che trova nel ragazzo annuente l’ideale direttore d’orchestra.
Oscar Hudson si serve di un’idea coreografica semplice, che ricorda certi esperimenti di Zbigniew Rybczyński, sfruttando coppie di attori vestiti allo stesso modo per interpretare un personaggio ciascuna. Il tutto riesce a tracciare una divertente caricatura dell’apatia (umana ma non solo) che attanaglia la società del benessere, e in particolare la sua gioventù. L’adolescente ascolta musica estraniandosi dalla realtà che gli sta attorno, dagli affetti familiari, dal contatto con gli altri (sempre che una giornalata sulla capoccia possa definirsi un contatto). E, d’altra parte, le figurine che orbitano attorno al ragazzo non appaiono meno piatte e noiose, disinteressate e spersonalizzate, tanto che nel momento in cui il trucco cinematografico viene rivelato e l’intero cast (composto da mucchietti di sosia) entra nella medesima inquadratura, il processo di disintegrazione dell’individualità pare aver raggiunto il suo apice.
Ma il regista ha ancora un asso nella manica e ci destabilizza con un finale a sorpresa beffardo e grottesco, pessimista quanto esilarante, un monito contro l’abulia e i pericoli della routine, che rischiano di farci perdere di vista i valori e la bellezza del mondo, un po’ come la funzione “skippa capitoli” sperimentata da Adam Sandler in Cambia la tua vita con un click.
E dunque, via le cuffie!

Gilligan Moss. Oscar Hudson. 2015

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