PAMPHLETS / SQUID (RAMAN DJAFARI)

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QUANDO SI DICE “POVERO DIAVOLO”.

Mai l’azzurro, emblematico e rasserenante pigmento della volta celeste, si era reso così opprimente quanto nel video di Raman Djafari, il cui approccio alla stop motion fluttua fra la sospesa irrealtà di Anomalisa e la grottesca ironia dei pupazzetti in plastilina di un Celebrity Deathmatch.
In una stanza dalle pareti azzurre, i pavimenti azzurri e gran parte dell’arredamento dello stesso colore vive – o sopravvive – un diavoletto senza amici né famiglia, timidamente raccolto nel suo completo azzurro, circondato da tende e coperte tinte di arancione come dei dissonanti soli morenti.
In questa specie di camera d’ospedale, quasi un antinomico ospizio paradisiaco per abitatori degli inferi, stemperata dalla rigida simmetria dei suoi ornamenti, il nostro demonio passa le giornate deprimendosi nella staticità del quotidiano, contemplando il mondo esterno inarrivabile che gli si proietta oltre la finestra.
Un mondo dinamico e spaventoso, dove i passanti, tutti diversi e tutti uguali, procedono in infiniti squadroni verso mete ignote, incanalati in un flusso automatizzato che nella sua sfuggevole insensatezza attrae e repelle con egual vigore.
Ma il diavoletto è un outsider, o meglio un “insider” (“That’s why I don’t go outside” sentenzia la disagiata voce di Ollie Judge degli Squid): prigioniero delle sue stesse insicurezze, trascorre l’esistenza nel rifiuto di una società che avverte come aliena, nell’immoto tedio di quattro mura piastrellate, che sembrano diventare ogni giorno più strette.
Girare su se stesso o giocherellare con l’interruttore della sua lampada da tavolo sembrano i suoi passatempi prediletti, ma sotto la scorza di un patetico e infruttuoso isolamento palpita una brama creativa che agogna inusuali forme di libertà.
Concretizzazione di tali impulsi, osservata attraverso una finestra assai peculiare (l’oblò della lavatrice, e chi ha visto Dio esiste e vive a Bruxelles non avrà problemi ad accettare l’idea), è una mela, ovviamente azzurra, che il nostro eroe insegue in brevi trip onirici che stanno fra le peregrinazioni boschive di Jack Skeletron in Nightmare before Christmas e l’abisso mesmerico di Get out di Jordan Peele.
E dopo aver raccolto una, due, quattro, dozzine di mele, il triste demonio, con la medesima assorta dedizione di sempre, si diletta nell’assemblaggio di bizzarre composizioni di frutta: piccole torri, file perfettamente ordinate, spirali e piramidi in cui immergersi come un bagnante che si concede una sabbiatura rilassante.
E la sua mente viaggia, spazia sempre più lontano.
Lui guarda una mela, e la mela ricambia il suo sguardo.
E col tempo che passa, la natura fa il suo corso: come ogni frutto lontano dal proprio ramo, anche i pomi azzurri cominciano a imputridire. Grossi insetti sbucano dalla buccia e svolazzano ovunque, simili a scintille impazzite di un fuoco senza fiamme.
Ed è strano, ma in questa nuova istantanea marcescente della stanza azzurra, che adesso al pari delle mele ha assunto sfumature cromatiche verdognole, la stessa pare meno algida. A suo modo più luminosa. Più viva.
Il diavolo si perde nelle vorticose danze dei mosconi, scintillanti come lucciole, si abbandona al loro soffio vitale e lancia un silenzioso addio a quella stanza, davvero troppo piccola per lui. Un addio a quella casa. Un addio al mondo.
Nel cielo caldo di un’alba sanguigna, la gente di “là fuori”, ammutolita tutto d’un tratto, arresta la propria marcia e punta gli occhi verso il sole, dove si staglia la nirvanica figura del signor demonietto, sollevata dal tocco soave di un nugolo di insetti, raccolta dal raggio invisibile di qualche strano UFO spirituale.
In pace, finalmente.
Un’anima libera.
E qualcuno di particolarmente cinico potrebbe desumere che, dentro quella stanza ormai deserta, non saranno soltanto le mele a giacere in uno stadio avanzato di putrefazione.

SQUID. RAMAN DJAFARI. 2021.

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