QUANDO DIRE INTERATTIVI SIGNIFICAVA UN’ALTRA COSA.
Ci sono videoclip che non si possono descrivere talmente tanto sono stati oggetto di studio e di onorificenze. Video che sono stati analizzati nei minimi dettagli, tanto dai critici che dai detrattori e studiosi. Video datati, che hanno fatto la storia del videoclip, candidati alle nomination di MTV awards di cui tutti hanno parlato. A volerne scriverne a distanza di così tanti anni insomma, si corre solo il rischio di stancare e di non aggiungere nulla.
Io però vorrei provare a fare un esperimento di scrittura di questo degli A-HA che è per me fonte di nostalgico ricordo di me ragazzina (1986) attratta dal disegno e desiderosa di imparare. Ricordare quanto questa deliziosa avventura grafica si sia guadagnata meritatamente un posto tra i videoclip narrativi più riusciti della mia generazione.
Quando mi capitò di vederlo, di fronte al primo stupore, iniziai a guardarlo rapita dalla classica storia di lei in carne ed ossa che entra dentro un libro di fumetti – diventando per me personaggio indelebile, da questo momento in poi. La ragazza, dopo aver letto di lui che vince una gara, accetta di entrare scappando da una vita fatta di poche cose e quindi al solo scopo di conoscere e mettersi insieme al cantante del gruppo che la invita a diventare come lui: disegnata a mano e in bianco e nero. In quel frangente mi accorgevo solo di una cosa: l’effettiva comprensione del testo della canzone non mi era in alcun modo necessaria. Sperimentavo cioè come per essere catapultati nel magico e fantasioso mondo del videoclip fossero sufficienti le immagini. Come fosse intimamente evocativo e carico di soprese quel modo per niente stereotipato di costruire legami tra il mondo reale e quello disegnato. Tuttavia, non era la storia d’amore che m’interessava. Erano piuttosto le emozioni, a condurre le danze, a dominare la scena e a tratteggiare il vero tema del videoclip. La paura di quando i due nella versione bidimensionale vengono inseguiti dai delinquenti, la speranza di poter uscire da quel mondo, la gioia di essere passati al mondo reale e il conforto di quando lei si porta a casa quel fumetto risuonavano profondissimi in me, tanto da concedermi di sperimentare una grande empatia verso i disegni che si muovevano tra quelle pagine.
Anche perché quelle immagini erano da me avvertite come delle vere e proprie opere d’arte, che mi chiedevano di essere osservate attentamente: ecco allora che io stessa ero pronta – esattamente come la ragazza del video – ad immergermi totalmente nella storia, diventandone protagonista e allo stesso tempo mi caricavo del compito di raccontarne la storia diventando io stessa l’autrice. Creatrice sia della storia che delle immagini: praticamente un sogno! Ricordo che in quel momento sentivo che non c’erano limiti ai miei miraggi, ed era proprio questo l’aspetto più affascinante: per me era possibile prendere attivamente parte alla costruzione della storia, forte di una fiducia incrollabile nel fatto che anch’io non solo l’avrei raccontata ma che un giorno avrei saputo disegnare in quel modo.
Quando, da adulta, ho rivisto il video, ho cercato di guardarlo in ogni suo singolo dettaglio, a fantasticare sulla storia e a ricercare nel mio immaginario quegli aspetti che nel video non venivano esplicitati; dopodiché mi sono immaginata come avevo reagito da ragazza e mi sono chiesta se anche allora, ho sentito il bisogno di raccontare ciò che vedevo e immaginavo.
Suppongo di poter rispondere di sì e di aver sperimentato come raccontare un’ampia gamma di storie attraverso un’unica trama sia ancora un gioco divertente. Un espediente utile (forse il solo) per noi che siamo cresciute con storie unidimensionali fantastiche e cariche di promesse. Semplici eppure impresse nella memoria anche se sono lontane mille miglia da quelle interattive e ramificate del gaming attuale.
Intanto guardatevi la versione rimasterizzata!
A-HA. STEVE BARRON. 1985.