BLASPHEMY / COLDXMAN (IAN PONS JEWELL)

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QUANDO UN’OPINIONE È PARI A UNA BESTEMMIA.

Che il razzismo sia una piaga che serpeggia, in forme diverse e più o meno palesi, nel Nuovo Continente sin dai tempi della sua “scoperta”, è un’affermazione difficilmente controbattibile.

Dai commerci di neri dall’Africa agli stereotipi a cartoni animati della vecchia Disney, dal “ci rubano il lavoro” ai pregiudizi sul colore della pelle che spesso animano tragicamente tanti tutori della legge: la violenza e le ingiustizie hanno da sempre caratterizzato la storia e la cronaca degli Stati Uniti (e non solo).

Ma bisogna dirlo: oggi, statistiche alla mano, le cose vanno molto meglio. Anni di rivoluzioni, campagne di sensibilizzazione e forse un fisiologico processo di maturazione del genere umano hanno aiutato a infondere un senso di cosmopolitismo, integrazione e accettazione del “diverso” anche negli strati elitari più tradizionalisti e rigidi.

Il “politicamente corretto” è ormai la base su cui si fonda la società stessa, a qualsiasi livello; i mezzi di comunicazione sono quantomai emblematici in tal senso. Non è raro, infatti, che il minimo sgarro a questo equilibrio di tolleranza, così faticosamente conquistato, si traduca in una cosiddetta “shitstorm” mediatica, che rischia talvolta di distruggere reputazioni e carriere di personaggi pubblici anche influenti.

E se un bianco che offende – anche involontariamente – una minoranza etnica si ritroverà protagonista di un grave scandalo, un nero che si oppone ai principi della “woke culture” passerà come un traditore, un bestemmiatore.

Coleman Hughes, in arte COLDXMAN, è un opinionista da podcast e scrittore afroamericano, rapper per hobby. Nel 2019 si è opposto apertamente alle “riparazioni per lo schiavismo”, ossia ai risarcimenti economici offerti ai discendenti degli schiavi: secondo Hughes, certe anacronistiche iniziative non farebbero che aumentare il divario sociopolitico che intercorre fra neri e bianchi, allontanando il focus da problemi più concreti e imminenti.

Insomma, un’esasperazione dell’antirazzismo non è in termini pratici la soluzione più indicata per simili questioni.

Be’, le parole di Hughes non sono piaciute a tante persone, e questa canzone, così come il coraggioso video diretto da Ian Pons Jewell, non è che una grintosa risposta alla controversia scaturita.

Nel clip il cantante fa valere le proprie ragioni davanti a una commissione della Camera dei rappresentanti, lasciando a un ridicolo calzino-burattino da lui stesso manovrato il compito di enunciare il ritornello: “Blasfemia”.

Ecco come suona il pensiero del podcaster alle orecchie dei benpensanti presenti. Una bestemmia.

Si nota subito, per di più, che la maggioranza della commissione è composta da bianchi: solo un nero siede nel gruppo, e intasca annuendo una mazzetta gentilmente concessa dal presidente.

L’antirazzismo sembra oramai diventato una prerogativa dei bianchi tanto quanto l’ideologia opposta, quasi fosse uno strumento di redenzione atto a mondare la coscienza dai peccati commessi dagli avi. Pensiamo a Jordan Peele, che col suo horror Get out ha scagliato una chiara e geniale frecciata satirica contro l’ipocrisia liberal dei “pallidi” radical chic.

Ma torniamo a Hughes, che in un twist imprevisto passa dall’altra parte, impersonando l’avvocato dell’accusa, la voce schietta della massa che lo condanna come “venduto” e “portavoce dei bianchi”. Curioso che sia lo stesso rapper a interpretare il personaggio: l’artista non rinnega le proprie origini, né minimizza i problemi della comunità di colore, ma ha le sue idee, ed è disposto a mettere in discussione persino parte di se stesso pur di difenderle.

All’improvviso il video assume un tono grottescamente dark: dal pubblico che assiste all’orazione si alza un clown dall’aspetto trasandato, che punta l’indice a mo’ di pistola, e in un surreale ralenti fa fuoco! Una pallottola viene sparata dalla falange e trapassa in slow-motion la testa del cantante, in scoppi emoglobinici degni di uno Zapruder alla CGI. Gli ottimi ritocchi digitali di Dan Williams sortiscono lo straniante e disturbante effetto che si ricercava.

Se poi alla perturbante carrellata di computer graphics si aggiunge la morte splatter – e sottilmente feticistica – di un topolino tatuato sotto il tacco a spillo di una spettatrice, l’incasso shock è garantito.

Hughes si rialza: ha un foro che lo attraversa da tempia a tempia, ma è ancora in grado di parlare, di urlare, di stamburare le proprie opinioni, alla faccia di chi non chiederebbe altro che farlo tacere.

Il pubblico si alza in piedi, accerchia il rapper e gli gira attorno con sguardo torvo in una minacciosa coreografia. Uno contro il mondo: bianchi e neri, maschi e femmine, pagliacci e damerini…

È come se il soggetto del dibattito, quella “blasfemia” più volte portata alla luce, fosse passato in secondo piano: qualunque sia la propria idea al riguardo, che si sventoli la conciliante bandiera del social justice warrior o si sostenga lo scomodo buonsenso libertario, è sacrosanto diritto di tutti esprimerla senza il timore di venire ostracizzati.

La paura di Hughes non è di essere massacrato dalla polizia, ma di farsi assimilare dal blob devitalizzante del bel pensiero comune; di ottenere il bene assemblando fra loro i mali subdoli del nuovo conformismo; di sapere che ciò che lui ritiene vero sarà etichettato come una bestemmia.

Molto “thought-provoking”, come direbbero negli USA.

Certo che non è facile per uno spettatore italiano concentrarsi sul significato del testo e del video dopo aver constatato che il nome del presidente della commissione è Mr. Cagacazzo!

2022. COLDXMAN. IAN PONS JEWELL.

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