LA CORSA PIÙ PAZZA DEL NON-MONDO.
Molti artisti “visionari” tendono a modulare le proprie creazioni su standard precostituiti dai guru del settore, che si chiamino Lynch, Cronenberg o Jodorowsky.
Ma Tobias Stretch è diverso.
Lo stile dell’animatore statunitense si riconosce alla prima occhiata, non solo per il senso di liberante alienazione emanato dai suoi cortometraggi, ma anche per il look delle sue sculture. Il video da lui diretto per i Radiohead nell’ormai remoto 2008 pone solidamente le basi per le sue future evoluzioni, saldando il mood e l’impianto visivo di cui si confermerà maestro.
Nel suddetto filmato, girato in un 4:3 già di suo perso fra l’ancestrale e lo sperimentale, un manipolo di bizzarri personaggi si esibisce in una maratona campestre a bordo di carri, veicoli a pedali e macchine volanti. Ogni componente di questa stramba parata ha una fisionomia tutta sua, un suo peculiarissimo aspetto, un minuzioso assemblaggio somatico imprescindibile dai materiali stessi di cui il soggetto è costituito.
La colorata galleria di mezzi da corsa passa scioltamente da bighe trainate da pesci alati a strampalati deltaplani ottoscenteschi decorati con volti pseudo-demoniaci e teste gallinacee, da teche di vetro che si spingono come carrelli a trampoli con uccelli svolazzanti sulla cima.
Ma i corridori non sono da meno: c’è chi indossa una tenuta da vecchio aviatore e ha roteanti occhi a spirale (sottolineati dal verso che esclama “Your eyes”, non a caso), chi è composto da filamenti secchi, chi ha il corpo di un sole aracnideo e chi è un semplice fantoccio di ramoscelli che si sposta su sci di legnetti.
Dai corpi di surreale fattura si dimenano sottili braccia tentacolari, che stanno a metà fra gli arti di un alieno mutaforma in stile La cosa di Carpenter e i peli senzienti di una creatura delle fiabe.
Mezzi di trasporto e conducenti sembrano far parte del medesimo organismo, che a sua volta affonda le radici della propria essenza nella natura circostante.
L’inquietudine ispirata dalla stranezza dei partecipanti procede di pari passo con la trasognata serenità dell’evento: che si tratti di una frenetica gara di velocità o di una tranquilla scampagnata in amicizia, si resta rapiti dalla placida armonia che anche i dettagli più disturbanti – le bocche carnose o l’innaturalezza dei bulbi oculari – infondono in chi osserva.
La musica evasiva del celebre gruppo inglese offre l’indispensabile tappeto sonoro su cui lo spettatore andrà a costruire l’intricata rete emozionale della propria esperienza, ma anche le particolari tecniche di animazione e montaggio adoperate da Stretch si rivelano fondamentali a tal proposito.
L’autore muove i suoi pupazzi a passo uno, ma anziché affidarsi alle magie della post-produzione e del canonico green screen, opta per stacchi netti di macchina in loco, trascinando il paesaggio stesso all’interno del processo di animazione. Le nuvole si spostano insieme ai personaggi, il cielo si oscura di scatto in scatto, senza una vera fluidità, in conformità con la vis straniante della messinscena.
Il tempo e lo spazio vengono colti nell’unità di un fotogramma per volta, testimoniando per logica conseguenza tutto il sudore e le intere giornate che Stretch ha sacrificato in nome della propria arte, ora dopo ora, metro dopo metro.
La pazza maratona si conclude sulla superficie di un laghetto, in cui i nostri protagonisti (le cui teste interscambiabili generano design sempre più folli) si immergono, come quei “weird fishes” di cui Thom Yorke sta cantando. Infine, quasi fossimo giunti alla conclusione di un cartone animato del sabato pomeriggio, i piccoletti alzano braccine e protuberanze prensili per fare “ciao” al pubblico.
Tirate le somme, se qualcuno si fosse mai chiesto cosa potrebbero ideare Jan Švankmajer e Terry Gilliam se una comune di hippy finanziasse una loro collaborazione, questo video potrebbe rappresentare un’esaustiva risposta filmica.
RADIOHEAD. THOMAS STRETCH. 2008.