SEPOLTI DALL’OMBRA, BENEDETTI DALLA LUCE.
A un primo sguardo il videoclip di You’re not alone saprebbe di già visto. A un secondo, tuttavia, l’occhio comincia a elaborare – accompagnato dalle linee melodiche di Agoria – la presenza di un potente quid in più. Al terzo sguardo, finalmente, capisce. Anzi, capiamo.
In un tripudio di rimandi non troppo velati al topos della sepoltura – e che non solo richiamano a personaggi quali Anse Bundren di Mentre morivo, ma anche a lavori musicali come Fjara di Sólstafir – davanti a noi si apre un deserto saturo di luce.
Lì c’è tutta la verità che ci serve, la cornice attorno a un tableau vivant di vagabondi riunitosi per l’addio a un loro compagno – i cui resti andranno restituiti alla terra, lontano, oltre quel nulla riarso dal sole. La prima direttrice simbolica del videoclip, dunque, la prima “magia” di You’re not alone, agisce con gran prepotenza visiva lungo la frattura luce/tenebra, una bipolarità, questa,
simmetrica all’altra fondamentale dicotomia che è quella fra l’aperto e il chiuso.
La verità vive dove c’è luce, dove ci sono spazio. E aria. Lo stesso, invece, non può dirsi dei luoghi ove abitano i reietti protagonisti della storia. Là, in mancanza di luce, al chiuso, i rapporti fra i personaggi decadono nell’eccesso, nel non detto e in un’ambiguità promiscua.
Dal loro habitat, però, la luce non è mai bandita davvero, specie quando illumina i volti tanto efebici quanto grevi dei numerosi ragazzi e ragazze che ci accompagnano nella storia. Ognuno di loro è un film muto che aspetta solo di essere letto.
Ad ogni modo, nel mondo dipinto da Agoria, è impossibile giungere a una verità certa, proprio perché la convivenza fra luci e ombre è talmente sofferta da rendersi statica come le linee melodiche del pezzo.
Le espressioni di questi giovani randagi, infatti, persi entro un cosmo che fa suo i lasciti di Elvis, dei Grateful Dead e dell’estetica Teddy Boy, è costantemente alienata, alienante, e condannata a un limbo emotivo imperscrutabile. A muoversi, durante You’re not alone, sono i corpi e mai le facce. Non c’è spazio (né luce) per il pathos. Sono rituali segreti, sguardi e danze a gettare
carne sulle ossa di una storia lenta ma inesorabile nel suo dipanarsi, e che procede sulla falsariga di questa catabasi a cavallo di motocicletta.
Ed è su quella via, senza sentieri né cartelli, che la luce nei nostri occhi dovrà viaggiare e viaggiare, fino a decifrare – ognuno con la sua sensibilità – il sibillino messaggio che corre fra la bara di un caduto e il misterioso “battesimo” a fine storia. Sepolta dall’ombra, e benedetta dalla luce, è proprio lì che aspetta la verità.
AGORIA. HERNAN CORERA – CORNAS & CAVIA. 2019.