UN ART ATTACK PER SOLI ADULTI.
L’atto della creazione, forse il più insondabile mistero dell’esistenza e punto di partenza di qualsiasi corrente religiosa diffusa nel mondo, ha da sempre ammaliato pensatori di ogni epoca e tradizione.
Un interrogativo che non potrà mai avere una risposta certa, materiale inesauribile per dissertazioni filosofiche e teologiche, dilemma scientifico, e – non dimentichiamolo – fonte di ispirazione per alcuni fra i più grandi narratori della storia, solidissima base per miti, romanzi, film e via elencando.
Ma può anche l’uomo essere considerato un “creatore” in piccolo? Esiste un rapporto divino fra l’artigiano e il suo manufatto, fra l’artista e la sua opera? E potrà mai l’essere umano raggiungere lo step successivo, il traguardo finale di tale processo: creare dal nulla la vita stessa?
Tematiche suggestive, stimolanti, su cui si sono versati fiumi di inchiostro e che, fra recuperi di elucubrazioni antiche e reinterpretazioni delle stesse in chiave moderna, non sembrano mai passare di moda.
In mezzo a tante banalità, la lettura che offre il filmmaker Joe Vanhoutteghem per l’energico brano dei belgi Hickey Underworld prende alla sprovvista con la sua malsana forza grafica e incommensurabile ironia macabra.
La “creazione” è per il regista quanto di più lontano possa intendersi dal sublime, dall’idea di onnipotenza, dal fascino insondabile che essa esercita sui mortali.
Lordura e squallore, follia e disperazione, terrore della solitudine e malato bisogno di amore, fino all’annichilimento risolutivo: quella qui descritta è l’allucinante parabola autodistruttiva di una mente deviata!
Ci troviamo in un capannone abbandonato, ricolmo di cianfrusaglie e rifiuti della più diversa origine: un uomo sporco in viso e con indosso abiti logori sta passando in rassegna i cumuli di spazzatura, selezionando vari pezzi con grossolana meticolosità.
Si comincia dalle luci al neon, che il nostro ricava da tubi di vetro, vecchie lampadine e vernice bianca; si prosegue con qualche trancio di stoffa, quadratoni di gommapiuma, legname in abbondanza, mobilia in disuso: in men che non si dica, assemblando con cura il tutto, il taciturno signore si è costruito un soggiorno da zero. Divano, tavolino, sedie, credenze, persino una parete decorosa con tanto di dipinto appeso, non manca proprio nulla!
Una sequenza bizzarra e buffa, che suscita nei confronti del protagonista un misto di ammirazione per la sua solerte inventiva e di malinconia per l’illusoria compostezza scenica che questi ritiene di aver ottenuto. Per un breve attimo scorgiamo, infatti, l’immagine che il nostro forse crede di essersi realmente fabbricato: pare una foto uscita da un catalogo di arredamento!
Noi spettatori sappiamo che tutto ciò è impossibile, che quella finezza ornamentale esiste solo nella testa dell’inusuale carpentiere, ma questi non sembra farci caso. In lui non si colgono tuttavia né entusiasmo né soddisfazione: la spenta fissità con cui osserva l’ambiente, la robotica precisione con cui lavora, fanno più che altro immaginare una persona angosciata, alla ricerca di un conforto e di un equilibrio che ignote circostanze gli stanno crudelmente negando. Che possa trattarsi dell’ultimo uomo della Terra?
Sia come sia, dall’agrodolce ritratto che Vanhoutteghem ha finora delineato si apre uno spiraglio decisamente meno innocuo. Pare che quel lurido deposito sia servito anche come discarica abusiva per qualche macello della zona, dal momento che il nostro non incontra troppe difficoltà a raggruppare ossa animali, tagli di carne assortiti e pelli di mucca sanguinante.
Con un po’ di carcasse, ago, filo e pittura, in quattro e quattr’otto l’uomo mette insieme un coniglio domestico, lo veste con un maglioncino di lana e lo accoccola su una poltrona della sua “stanza”!
E non è finita qui: quando ormai sembra che la pazzia abbia toccato l’acme, le preoccupanti dimensioni delle ossa che l’uomo sta raccogliendo ci fanno intuire che i limiti dell’insania saranno ben presto superati.
Tendini, muscoli, bulloni, una maschera di lattice, una dentiera, una bella secchiata di colore e una parrucca: ecco pronta una donna, fatta e ben formata! E persino in grado di aprire gli occhi e compiere piccoli gesti, come una bambola meccanica dai movimenti limitati.
Come un rozzo dottor Frankenstein dei poveri, o un mastro Geppetto dall’indole necrofila, l’uomo si lascia prendere la mano: ripetendo le medesime disgustose operazioni, regala dunque alla sua nuova compagna un po’ di “amici”.
Ragazzi, ragazze, gente con barba e senza barba, calvi e capelloni: un piccolo esercito di manichini di carne popola adesso il suo bel salotto.
Incastonando pannelli, lamiere e viti con la stessa abilità con cui poco prima si era improvvisato una pentola per cucinare il suo adorabile coniglietto (tetro foreshadowing del tipo di trattamento cui sono destinati i suoi organici manufatti!), il nostro Pigmalione da film horror riproduce un intero arsenale musicale: basso, chitarra, batteria… e, posizionate opportunamente quattro delle sue creature (interpretate dalla stessa band), si concede pure un accompagnamento canoro! Il Vincent Price di L’abominevole dr. Phibes avrebbe di certo apprezzato l’impegno.
Ma anche in questo simulacro di paradisiaca quotidianità c’è qualche turbolenza: come un dio geloso o particolarmente moralista, il nostro mal vede i lussuriosi interessi che uno dei pupazzi sembra nutrire per una sua simile. Be’, di che si stupisce in fondo? Quella donna è l’unica del mucchio a non possedere lo straccio di un vestito!
Ma il “creatore” non conosce pietà: perde il controllo e si scaglia con indomabile furia sul frutto dei suoi sforzi, massacrando selvaggiamente ciascuno dei presenti. Adesso non sembrano più perfette riproduzioni di persone: quegli ammassi di carne putrescente giacciono smantellati sul pavimento, e forse ora anche il povero artefice ne ha preso coscienza.
Un sogno irrealizzabile, un vuoto incolmabile, una sofferenza implacabile: l’unica soluzione è l’oblio. Da creatore di vita a portatore di morte, l’uomo scrive così l’ultimo capitolo della propria tragica esistenza, ma pure nell’auto-annientamento conserva un’istrionica ingegnosità.
Edificata una grossa piramide di cartone e scotch e rinchiusosi al suo interno, il nostro “faraone” si fa penzolare a mezz’aria sopra il teatro della mattanza e si consegna per sempre alle fiamme in un assurdo rituale di cremazione.
Non c’è che dire: dopo aver visto questo grottesco capolavoro di humour nerissimo, non si riuscirà più a guardare una costina con gli stessi occhi!
THE HICKEY UNDERWORLD. JOE VANHOUTTEGHEM. 2009.