SCOPRENDO SE STESSI.
Stando alle dichiarazioni di Stephen Michael Swartz (in arte Stephen), l’idea per il brano risale a un’esperienza di autoindagine introspettiva sotto l’effetto della cocaina, in cui l’artista statunitense è entrato in contatto con lati fino ad allora inesplorati del proprio io.
Nello specifico, Stephen afferma di essersi rapportato col suo lato femminile, indossando abiti da donna e finendo per conoscere meglio se stesso e la sua identità, il suo “essere maschio”, ma non solo.
Il cantante ha insomma contemplato la propria Ombra, nel senso junghiano del termine, quegli aspetti della personalità che ignoriamo, che teniamo nascosti a noi stessi e che, affacciandoci sull’inconscio, potremmo in teoria individuare, e persino assimilare ottenendo una nuova coscienza del nostro essere.
Un vero trip psicanalitico, dunque, che il regista Mason Thorne ha tradotto in forma visiva con appropriatissima aderenza all’intimistica fonte ispiratrice.
Swartz, da solo in casa a sera tarda, a torso nudo e col naso bendato, se ne sta seduto in meditabonda stasi circondato da manichini che scorgiamo solo di quinta, poco prima di alzarsi di scatto rovesciando la seggiola.
Proprio i manichini, simulacri intrinsecamente perturbanti dell’essere umano, si riveleranno uno degli spunti tematici del clip.
Stephen, infatti, assumerà più volte le fattezze di un fantoccio mutilato, un corpo fittizio nel quale la psiche fatica ormai a riconoscersi, persa com’è in quella fase critica in cui l’anima lotta contro se stessa in cerca della propria essenza.
Ma sono certamente le riprese del cantante in vestitino muliebre (nei panni di Delilah, per l’appunto) a destare maggior stupore, se non altro per la capacità di Thorne – e per l’indubbia partecipazione emotiva di Swartz – di cogliere in pieno la profondità spirituale dell’atto, dribblando il rischio di contaminare la performance di humour grottesco.
No, non c’è nulla di ironico nei gesti di Stephen, che lo si veda proiettare inquietanti ombre sul muro con una lampada da tavolo, risvegliando magari certi pareidolici timori infantili; o vagabondare in stato semiconfusionale per una buia stradina di campagna, illuminando il cammino con quella medesima lampada stretta in pungo, assicurata a una metafisica prolunga.
Per non parlare dei climax passionali del brano, in cui Stephen viene mostrato a battere colpi violenti su una batteria, in sequenze “fisiche” di grande impatto drammatico, addirittura catartiche nella loro intensità lirica, del tutto speculare rispetto al crescendo del brano.
Alcune immagini confezionate dal filmmaker potrebbero passare per installazioni di arte moderna: si prenda l’ormai famosa lampada piazzata al centro della carreggiata con tanto di paralume, sorta di corrispettivo domestico di un faro nella notte; oppure un braccio di manichino sospeso nell’aria, piccolo capolavoro di sintesi surrealista; o ancora, i rami secchi che calzano scarponi come bizzarre gambe di legno.
Altre soluzioni grafiche ricadono nel citazionismo cinefilo, ad esempio l’avventura extracorporea di Stephen che, per tipologia di inquadrature e qualità di effetti ottici, rievoca il vecchio “Vampyr” di Dreyer.
Un mosaico di psicologia, arte ed espressività musicale, che ben rende le sensazioni provate da Swartz durante la sua peculiare esperienza… un’esperienza che ci invita a provare a nostra volta, sempre sulla base dei messaggi rilasciati dall’autore.
E perché no? Potrebbe essere un’occasione di arricchimento personale da non sottovalutare…
Tuttavia, come Stephen ci tiene a sottolineare, meglio lasciar perdere la cocaina in tutto questo!
STEPHEN. MASON THORNE. 2020.